Eutanasia a 10mila euro Ma se si cambia idea non rimborsano nulla

Viaggio nelle cliniche elvetiche che offrono assistenza. Con funerale e cremazione inclusi

Eutanasia a 10mila euro Ma se si cambia idea non rimborsano nulla

Assomiglia a una casa-famiglia. Arredata in modo spartano ma con gusto. Molte piante e quadri naif alle pareti. All'esterno un giardino fiorito. Dalle finestre si vedono le montagne. Una delle «stanze dell'eutanasia» è qui, in Canton Ticino. Chi arriva sa che questo è un viaggio con biglietto di «sola andata». Preceduti da una cartella clinica che certifica «l'inguaribilità della patologia», gli «esuli del suicidio assistito» vengono anche dall'Italia. Hanno compilato un test di ammissione. Si sono sottoposti a varie visite mediche. Sedute psicologiche per capire se si è davvero «motivati». E infine, dettaglio non marginale, si è messa mano al portafoglio.

«Come si procede una volta presa la decisione?», domanda la giornalista di quotidiano.net. Risposta: «Mandi la tua documentazione sanitaria a Basilea. È necessaria la prova di diagnosi di malattia incurabile. Poi arriva quella che chiamano la luce verde. Da quel momento hai il permesso di scegliere quando andare. Nel mio caso molto presto. Ma proprio stamattina un amico mi ha detto: Paola, c'è ancora questo e quest'altro da fare. E va bene, facciamolo. Comunque puoi cambiare idea fino all'ultimo istante. Solo che non ti ridanno indietro i soldi». I «soldi» non sono spiccioli, ma ben 10 mila euro (comprensivi di visite e anche di funerale e cremazione). È la somma che la signora Paola Cirio, 54 anni, torinese, dichiara di aver versato a una delle tre organizzazioni svizzere che si occupano di eutanasia per poter essere accompagnata al suicidio assistito. Paola, colpita da sclerosi multipla, fa anche lei parte dell'associazione «Luca Coscioni», quindi sa quel che dice. E, le sue, sono parole che lasciano il segno: «Mi hanno fatto capire che andando in Svizzera potevo decidere da sola. Ho detto: bene, lo faccio, perché ho pensato che quando la malattia mi paralizzerà non avrò neanche la forza di buttarmi dalla finestra. Ci ho pensato al suicidio, sa? Due volte. Un giorno avevo deciso di lanciarmi dal terrazzo di un mio amico che abita al nono piano. Non ho avuto il coraggio. E ho anche pensato che gli avrei creato un sacco di problemi. Un'altra volta ho immaginato di lasciarmi cadere sotto un treno. Una mia amica lo aveva fatto per una pena d'amore e il treno l'ha tagliata in due. Ho avuto paura. Mi sono detta che doveva esistere un sistema meno violento. L'ho trovato».

Nel nostro Paese ci sono alcune associazioni che mettono in contatto chi si trova nelle stesse condizioni di Paola con le cliniche del «fine vita» (in realtà si tratta di semplici ambulatori) dove si svolge l'ultima fase del «trattamento». Un iter lungo, e curato nei minimi dettagli, che comincia da una semplice richiesta di informazioni e può concludersi con un bicchiere di pentobabital. Bastano poche gocce e la morte, indolore (almeno così assicurano i medici) sopraggiunge nel giro di pochi minuti. Solo la persona che ha deciso di dire addio per sempre alla vita può prendere quel bicchiere dal comodino e portarlo alla bocca. Nessuno può farlo al suo posto e se in quell'estremo gesto l'équipe sanitaria coglie un cenno di indecisione, l'intera operazione si blocca. Gli psicologi tornano in campo e i colloqui con l'aspirante suicida riprendono in maniera serrata. Tutto ruoto sempre attorno alla stessa domanda: «È proprio convinto di non voler più vivere?». Nella maggior parte dei casi il «paziente» risponde sì e allora il protocollo letale si rimette in moto; ma non di rado è accaduto che persone si alzassero dal letto avendo cambiato idea. In tal caso i primi ad essere contenti sono le associazioni pro-eutanasia che però, a norma di «contratto», non sono tenute a restituire la somma già incassata.

Tra le associazioni elvetiche (tutte teoricamente no-profit) che con maggiore professionalità si occupano di eutanasia legalizzata ci sono la Ex Internationl di Berna, la Dignitas di Zurigo e la Life Circle di Basilea. Ogni anno bussano alle loro porte circa 1.400 persone di varia nazionalità e almeno un centinaio di loro sono italiani: un trend in costante crescita, monitorato con attenzione da Exit Italia che da anni fa da tramite fra le strutture elvetiche e i nostri connazionali costretti a «migrare» per far cessare l'«inferno» in cui si sono stancati di vivere.

«Inferno», eccola la parola terribile usata ieri anche da «dj Fabo» prima di ingerire le gocce di pentobabital: un «inferno» che Fabo ha abbinato a un complemento di specificazione, sempre lo stesso, ripetuto tre volte: «di dolore», «di dolore», «di dolore». E chi siamo noi per criticare o, peggio, condannare un uomo devastato dalla sofferenza?

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