Politica

La falsa onestà dei sepolcri imbiancati

La falsa onestà dei sepolcri imbiancati

Da qualche giorno si contesta al «Giornale» e alla trasmissione di Italia1 «Le Iene» di aver sollevato sospetti sull'attività del padre di Luigi Di Maio; e ad alcuni politici (Renzi e la Boschi su tutti) di aver rilanciato quei sospetti. E che cosa viene contestato al «Giornale», alle «Iene» e ai renziani? Lasciando perdere i toni del sempre moderato Di Battista, in genere si contesta un'incoerenza. Cioè, si dice: vi lamentavate quando si indagava sulla vita privata e sui familiari di Berlusconi, di Renzi e della Boschi, e adesso fate lo stesso. E invece no, non è lo stesso. C'è una differenza evidente, ed è questa: è che Di Maio, i Cinquestelle e tutto il giornalismo che li ha appoggiati e che ora critica il «Giornale», hanno campato e prosperato e vinto le elezioni su una sola asserita virtù: l'onestà. Anzi illibatezza, immacolata concezione, impossibilità stessa, per loro, di macchiarsi di alcunché. Mentre gli altri sono «tutti corrotti o complici dei corrotti», per usare le parole di un loro illustre mentore. Tutti. Berlusconi, quando annunciò la discesa in campo, promise una rivoluzione liberale e un rilancio dell'economia. Renzi promise un rinnovamento della sinistra e il superamento della vecchia classe dirigente del suo partito. Si può discutere se abbiano mantenuto le promesse oppure no, si può essere d'accordo oppure no con le loro idee. Ma è un fatto che le promesse, le intenzioni e il programma erano quelli, non una autodichiarazione di impeccabilità, non un'accusa agli altri di disonestà. Il grillismo è nato invece solo su quello, il grido «tutti corrotti tranne noi» è stata la loro stessa ragione sociale, l'unica ideologia, l'unica offerta politica. «Onestà-Onestà» è sempre stato il loro inno, lo cantarono in piazza anche a Torino per festeggiare la sconfitta di Fassino, e fu un momento particolarmente truce, barbaro, buio, incivile, perché di Fassino tutto si può dire ma non che sia un ladro, bastava festeggiare la vittoria della Appendino e invece no, e invece quei cori «onestà-onestà». E tutta la propaganda grillina si è sviluppata con un linguaggio killer, con una narrazione squadristica in cui il rivale era sempre indicato come il nemico, anzi come un nemico talmente schifoso da essere innominabile (così Berlusconi è diventato «B.») oppure nominabile con nome storpiato, come ha ricordato «Il Foglio» di lunedì: Al Tappone, Al Fano, Maria Etruria, Bazzullo, Littorio, Giuliano l'Aprostata, Forminchioni, Ballusti. «L'altro» non è uno che la pensa diversamente, ma un turpe individuo, non solo corrotto ma pure deforme: c'è il Nano, il Grasso, Via col mento, quello che ha la vocina. Ed è questo squadrismo che provoca una reazione quando si scopre una possibile ombra sui Cinquestelle e i loro sodali. Si parla del padre di Di Maio non perché si sia convinti che è un delinquente, tantomeno perché pensiamo che le (eventuali) colpe dei padri debbano ricadere sui figli. Né si parla del padre di Di Maio per render occhio per occhio. No, del padre di Di Maio si parla ora perché loro, di possibili ombre sui padri, hanno campato e si vuol far capire loro - se vorranno capire - quanto male hanno fatto, negli anni, con la loro campagna che non è mai stata neppure satira, perché non c'è stata ironia, non c'è stato sorriso, ma solo odio, solo violenza. Del padre di Di Maio si parla, infine, perché da sempre i peccati dei moralisti fanno più chiasso di quelli dei libertini. Enzo Biagi diceva che «quando in un paese un ragazza resta incinta, fa più scalpore se a ingravidarla è stato il parroco». E un certo Gesù - per volare un po' più alto - nel Vangelo salva il pubblicano che chiede pietà per i propri peccati, non il fariseo che in sinagoga, ritto in piedi, ringrazia Dio per non essere «come tutti gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri». P.s. A proposito. Ai Cinquestelle e ai loro agit-prop bisognerebbe ricordare che l'onestà non consiste soltanto nel rispettare il settimo comandamento, «non rubare», ma anche nel seguire il quinto, «non uccidere».

Perché si uccide anche con le parole.

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