
La firma dell'accordo di pace tra Israele e Hamas, prevista domani a mezzogiorno a Sharm el Sheikh in Egitto, sarà un momento di svolta dopo due anni esatti di guerra feroce nella Striscia di Gaza. La presenza dei leader di numerose potenze mondiali e regionali alla cerimonia dà la misura dell'importanza che viene attribuita a quella che, nonostante la legittima soddisfazione e l'ostentato ottimismo di diversi protagonisti, potrebbe però rivelarsi più una tregua armata che una pace vera e propria.
Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, padrone di casa e leader di uno dei Paesi che hanno reso possibile l'intesa, e quello degli Stati Uniti Donald Trump, suo vero artefice, presiederanno insieme la cerimonia, alla quale prenderanno parte i leader dei principali Paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Spagna) e di importanti Paesi musulmani quali Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Indonesia e Pakistan.
Un vertice internazionale avrà dunque luogo nella località turistica egiziana. Lo scopo della presenza dei leader è quello di favorire l'implementazione di un'intesa che è molto ambiziosa, ma obiettivamente costruita su basi fragili. Già il solo fatto che Hamas (come del resto Israele) abbia annunciato che nessuna sua delegazione parteciperà alla cerimonia della firma evidenzia l'ambiguità del suo atteggiamento. Il gruppo terrorista che da vent'anni domina a Gaza ha anche chiarito di non voler dare seguito al punto dell'accordo che prevede il suo totale disarmo: "Nessuno così un rappresentante ufficiale di Hamas ha il diritto di impedirci di resistere all'occupazione": e questa pare davvero la promessa e la premessa della futura ripresa di un conflitto.
Tratteggiare un quadro di ciò che accadrà nella Striscia di Gaza e in Medio Oriente dopo il passaggio chiave di domani, insomma, richiede un esercizio di realismo: l'ottimismo della volontà, reso concreto dall'azione di Trump, è contemperato da una lunga serie di se e di ma espressi da entrambe le parti in causa, che rischiano di minare le basi di un edificio ambizioso.
La sensazione è che tutto o quasi dovrebbe filare liscio fino all'avvenuta liberazione di ostaggi e prigionieri, che è nell'interesse degli israeliani come dei palestinesi. Subito dopo, però, potrebbero cominciare i problemi. Ad esempio, è vero che Hamas si è impegnata a farsi da parte per permettere ad altri soggetti di governare nella Striscia, tuttavia ha già cominciato a pretendere che le sue armi siano consegnate (in parte) all'esercito di uno Stato palestinese al momento inesistente e che dovrebbe includere membri dell'organizzazione.
È insomma chiaro che Hamas si sta in realtà preparando a continuare la guerra contro Israele, che è la sua ragion d'essere. Non solo il suo esponente Hassan Badran ha già messo le mani avanti dichiarando che "il popolo palestinese e le forze della resistenza (cioè Hamas, nda) sicuramente useranno ogni loro capacità per reagire a un'eventuale aggressione" se il piano di pace fallisse, ma circa settemila uomini delle sue forze di sicurezza interna sono già stati dispiegati secondo la Bbc nelle aree di Gaza da cui si è ritirato l'esercito israeliano (Idf) "per ripulirle da fuorilegge e collaborazionisti".
Contemporaneamente, Bibi Netanyahu ha
chiarito che l'Idf rimarrà finche Hamas non avrà deposto le armi. Molte cose cambieranno da domani in poi e, secondo il disegno di Trump, il Medio Oriente non sarà più lo stesso. Ma la guerra a Gaza, purtroppo, non finisce qui.