Un governo per amico. Potrebbe essere il nuovo slogan per pubblicizzare le misure con cui Matteo Renzi intende riavvicinarsi al settore produttivo italiano a partire dalla prossima legge di Bilancio. E, per mostrare agli imprenditori che il verso è cambiato, si pensa anche a una versione molto soft dei temutissimi studi di settore, come anticipato ieri dal Giornale. Certo, non si tratta di una vera e propria rivoluzione perché le rivoluzioni costano e i soldi in cassa sono meno di quanto ci si aspettasse, ma è comunque un segnale di distensione per consolidare i rapporti con una parte di elettorato cui Renzi non è pregiudizialmente antipatico e che porterebbe tornare utile in vista del referendum.
La novità principale si incardina sulla riforma dell'imposizione sugli utili di impresa che quattro mesi orsono il premier e il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, battezzarono come flat tax. Il proposito, infatti, è introdurre un'aliquota unica al 24% sui redditi delle aziende. Il taglio dell'Ires dal 27,5% al 24, che comporterà minori introiti per 3 miliardi, è stato già spesato nella Stabilità 2016 e, come più volte testimoniato dai componenti dell'esecutivo, sarà in vigore dal primo gennaio. Resta da coprire la seconda parte riguardante la tassazione del reddito dei 2,8 milioni di imprese individuali e società di persone (società a nome collettivo e società in accomandita semplice). Fino a oggi questi piccoli imprenditori, artigiani e commercianti hanno pagato l'Irpef ad aliquota marginale su quanto prodotto dalle loro aziende. Sin dalla scorsa primavera l'esecutivo intendeva varare il decreto «Finanza per la crescita» (più noto per gli sgravi sui capital gain che avrebbero dovuto essere applicati a chi investe per almeno un triennio nei bond delle pmi) contenente anche una detassazione degli utili reinvestiti in azienda sottoforma di aliquota unica al 24% come la nuova Ires. La nuova imposta si chiamerà Iri (imposta sul reddito delle imprese), nome evocativo della vecchia holding pubblica, ed è stata «inventata» nell'ambito della delega fiscale varata nel 2015, ma mai introdotta.
È una misura positiva, sia ben chiaro, ma dalla portata ridotta. L'Iri, infatti, si applicherebbe agi utili reinvestiti in azienda, mentre quelli sfruttati a titolo personale dagli imprenditori resterebbero tassati con la vecchia Irpef con i suoi scaglioni dal 23 al 43 per cento. Secondo i calcoli effettuati dalla Cna, ne beneficerebbero almeno 500mila imprese e la pressione fiscale scenderebbe dal 62 al 60 per cento. Niente di straordinario, ma con i 7-800 milioni di costo della misura non si può pretendere di più.
A costo zero, ma molto più significativa dal punto di vista mediatico è la proposta di «ammorbidire» gli studi di settore. Innanzitutto cambiando loro il nome: si chiameranno «indicatori di compliance» e diventeranno una pagella con voti da 1 a 10 che designano il grado di affidabilità del singolo contribuente in base a parametri socio-economici e statistici. Insomma, non più le tremende griglie di presunzione dei ricavi che obbligavano imprenditori e liberi professionisti ad adeguarsi ai desiderata dell'Agenzia delle Entrate ove fossero risultate incongruenze, ma una sorta di moral suasion a fare i bravi cittadini. Anche questa innovazione avrebbe dovuto trovare spazio in un decreto, ma gli ingorghi parlamentari e le difficoltà dell'esecutivo lo hanno ritardato.
Anche in questo caso i vantaggi non sono numerosissimi, ma l'impatto è forte perché, ad esempio, coloro che riceveranno un voto
alto in pagella potranno beneficiare di accertamenti meno invasivi e rimborsi più rapidi. L'altro lato della medaglia è purtroppo noto: aumentare l'autotassazione per evitare guai con l'Agenzia guidata da Rossella Orlandi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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