In buona parte sono stati scoperti, hanno nomi e cognomi, si sa da quale gruppuscolo dell'ultrasinistra provengono. Ma i responsabili della lunga sequenza di minacce scaraventate a ridosso del lockdown contro il presidente della Lombardia Attilio Fontana non verranno processati. A decidere, seppure indirettamente, della loro sorte è stato lo stesso Fontana, che d'intesa con il suo legale Jacopo Pensa ha deciso di non querelare gli autori delle scritte e dei post. Così il sostituto procuratore Alberto Nobili, che pure a scoprire i responsabili degli attacchi al governatore aveva dedicato insieme alla Digos un attento lavoro di indagine, non ha avuto altra scelta che chiedere di archiviare le indagini: perché il reato di minaccia può dare luogo a un processo solo se la vittima sporge denuncia.
Perché Fontana alla fine abbia deciso di non perseguire gli autori delle scritte - la più gentile era «Fontana assassino», e non sono mancati messaggi di morte anche per i suoi familiari - lo spiega ieri l'avvocato Pensa: «Le inchieste sono state fatte, i responsabili sono stati in larga parte individuati, e già questo ha avuto certamente un effetto dissuasivo, visto che ora le minacce sono cessate. Quindi il presidente Fontana ha ritenuto che non fosse il caso di aggravare ulteriormente con questi processi il carico di lavoro di un tribunale già oberato».
Il picco più alto delle violenze verbali contro il presidente si era raggiunto a cavallo del mese di maggio, in contemporanea con le indagini della magistratura sui morti da coronavirus. La grande scritta «Fontana assassino» era apparsa con la firma dei Carc, un gruppetto della galassia antagonista, e aveva dato il via a una serie di emulazioni. In qualche occasione veniva tirato in causa anche il sindaco di Milano, Beppe Sala, definito «lo zerbino» di Fontana, ma il bersaglio principale era sempre il governatore. Ogni segnalazione di scritta e ogni messaggio venivano segnalati alla Procura e alla Prefettura, suscitando un allarme concreto: al punto che Fontana il 25 maggio venne messo sotto scorta, e vive tutt'ora all'ombra degli «angeli custodi» assegnatigli dal Prefetto di Varese.
All'inizio di giugno, la difesa di Fontana inviò in Procura un dossier di trenta pagine che rinchiudeva l'intero campionario delle decine di messaggi pervenuti al presidente, nonché dei post dal contenuto simile apparsi su Facebook e di altri social. «La tua famiglia sarà vittima di un incidente stradale occasionale», si leggeva in uno. «Devi morire come loro», diceva un altro, con la foto di bare di deceduti in una Rsa.
Quando seppe che un primo gruppo di autori delle scritte era stato identificato, Fontana manifestò la sua soddisfazione: «Apprendo che la Procura della Repubblica di Milano, sezione antiterrorismo, ha iscritto nel registro degli indagati i primi responsabili del clima di odio che sta turbando le nostre vite.
Le regole costituzionali della democrazia e del dialogo non possono essere violate da pochi fanatici che ignorano la verità, fomentando la violenza nelle nostre strade».Ora però rinuncia di portare i colpevoli alla sbarra, ritenendo che abbiano compresa la lezione. E sperando di non doversene pentire.
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