Politica

Il funerale in camicia nera e quell'Italia di cuori infranti

di Nazzareno Carusi

La settimana scorsa è morto Franco Cangini, giornalista illustre che tenne la direzione del Tempo e del Carlino e divise quella del Giornale con Indro Montanelli. Suo figlio Andrea, direttore del Quotidiano Nazionale, in una pagina dedicata alla ferita aperta che per molti è ancora l'8 settembre del '43, ha scritto dell'unica disposizione lasciata dal padre prima di morire: essere vestito in camicia nera. «Era così che voleva presentarsi al suo funerale e così è stato. Mi sono chiesto che senso avesse. Il suggello di un'esistenza, è stata la risposta. Quando la guerra fu persa e il fascismo si dissolse, mio padre aveva dieci anni. Era un bambino. Eppure per tutti i 72 anni che seguirono non smise mai di sentirsi un reduce. Non che l'abbia mai teorizzato, non che ne avesse fatto una retorica. Tanto meno una carriera. Ma si capiva. Non credo si sia trattato di una questione politica, la questione fu semmai etica e in un certo senso estetica. Il crollo rappresentò, evidentemente, un trauma. Un trauma nazionale». Limpido e commovente, Andrea Cangini m'ha rimandato alla morte di mio padre sei anni fa. Qualche ora prima d'essere trasferito in rianimazione, felice che mia madre, mia sorella ed io fossimo con lui per quella che sarebbe stata l'ultima volta insieme, inaspettatamente, con gli occhi che volsero in un attimo la gioia a un abisso di tristezza, disse: «Ci furono momenti, negli anni del fascismo, che diedero alla mia generazione almeno il sapore di cosa fosse la dignità di Patria. Poi vennero leggi razziali e guerra. E l'8 settembre morì tutto». Era del 1926 ed era stato balilla come i suoi coetanei, mio padre. Ma non era un fascista e quell'8 settembre non aveva 17 anni. Fu un democristiano liberale, che combatté la sfida elettorale del '48 e restò fedele a quell'idea. Nella DC abruzzese e nelle istituzioni locali ebbe incarichi importanti, con la dirittura che durante Tangentopoli, se gli diede sonni tranquilli, gli diede pure un'amarezza infinita quando scoprì che «amici» di partito altro non erano che ladri. Si chiamava Francesco, come il primo dei miei figli, e quelle ultime parole, senza nesso apparente con la malattia che lo spegneva, avevano invece proprio col dolore, ma dell'anima, a che fare; reduce anche lui, come Cangini padre, da una guerra forse peggiore d'ogni guerra, perché combattuta silente nelle trincee scavate dentro dal tempo circostante.

Sono tanti, i ragazzi d'allora nel dramma intimo d'una tragedia immane ancor di più perché rimossa.

Ogni carezza ai loro volti è coscienza di quel che è stato e condanna di un'epoca che spezzò loro il cuore, e lo spezzò all'Italia.

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