Politica

Giuseppi sotto assedio L'urlo della città: «Chiudete la fabbrica»

Tensione all'incontro con gli operai La folla: «Qui più morti che nascite»

Giuseppe Bassi

Taranto Alle cinque e trenta del pomeriggio il premier Giuseppe Conte arriva a Taranto e approda al capezzale di una terra ferita. Dinanzi alla sede della fabbrica, che un tempo era un colosso dell'acciaio mentre adesso è soltanto un gigante di carta ancor più traballante dopo l'emendamento del governo che ha cancellato lo scudo penale per ArcelorMittal, c'è tutto il dramma di una città dilaniata: da una parte i timori di chi sente svanire la certezza di un futuro o almeno un presente legato al lavoro, dall'altra l'esasperazione di quanti invocano un'inversione di rotta definitiva per risanare le profonde piaghe lasciate da decenni di inquinamento. «Qui ci sono più morti che nascite», urla la gente assiepata attorno al presidente del Consiglio che tenta di farsi strada tra la folla.

La tensione si taglia a fette, e si legge anche sul volto del premier. Il quale però si ferma e non rinuncia al dialogo. «Vogliamo che venga rispettata la Costituzione», gli dicono mentre qualcuno ricorda le vittime del lavoro e quelle delle polveri che aggrediscono il quartiere Tamburi quando si alza il vento. Intanto la folla aumenta. E si alza il coro «chiusura, chiusura». Conte, ormai assediato dalla gente accorsa dinanzi all'ingresso della fabbrica, tenta in qualche modo di rasserenare e rassicurare. «Parlerò con tutti», ripete ammettendo però di non avere «la soluzione in tasca». Il cordone di sicurezza fatica a lasciare spazio al presidente del Consiglio, che ascolta il dramma di operai e semplici cittadini: c'è chi racconta le drammatiche condizioni di lavoro nel cuore dello stabilimento, c'è chi spiega la tragedia di una vita a ridosso di quelle ciminiere. Ci sono cartelli, striscioni. Ma ci sono soprattutto le invocazioni di aiuto rivolte da gente che si sente disperata e abbandonata. «Presidente, vogliamo vivere», dicono.

Dopo un'ora e mezza Conte si allontana e varca l'ingresso della portineria D dello stabilimento per incontrare gli operai riuniti nel consiglio di fabbrica. «Sembra l'aula di una lezione universitaria», dice il premier prima di cedere la parola ai rappresentanti sindacali. I quali gli chiedono di fare qualcosa e di fare presto. Perché gli impianti ormai marciano al minimo e le lancette che conducono allo stop scorrono sempre più veloci. Ieri mattina i lavoratori sono scesi in sciopero alle 7 del mattino, come deciso da Fim, Uilm e Fiom. La protesta è rivolta in una duplice direzione: da una parte si chiede ai vertici della fabbrica «l'immediato ritiro della procedura di retrocessione dei rami d'azienda» e dall'altro si vuole indurre il governo a «non concedere nessun alibi» che porterebbe a un disimpegno. Il riferimento, per nulla velato, è alla cancellazione dello scudo penale nell'emendamento targato Movimento Cinque Stelle al decreto salva imprese. Tanto è vero che nella nota si invoca inoltre il ripristino di «tutte le condizioni in cui si è firmato l'accordo del 6 settembre 2018 che garantirebbe la possibilità di portare a termine il piano ambientale nelle scadenza previste». Insomma, pur non risparmiando un attacco diretto all'azienda ricordando che sono state poste «condizioni provocatorie e inaccettabili» (a cominciare dai dal ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e al licenziamento di cinquemila lavoratori), i sindacati puntano l'indice anche contro la politica.

E in particolare contro la retromarcia del governo giallorosso che ha fatto precipitare una situazione già complicata.

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