«Siamo molto ambiziosi, dobbiamo mettere mano alla giustizia tributaria. Il mio obiettivo è quello di ridurre un grado di giudizio, per la giustizia tributaria devono essere sufficienti solo due gradi». Queste parole del premier Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa di fine anno della scorsa settimana, non hanno suscitato particolari reazioni nell'opinione pubblica, restando confinate nel dibattito degli addetti ai lavori. In realtà, il progetto di riforma che il presidente del Consiglio ha delineato rischia di essere molto pericoloso per piccoli e grandi contribuenti che rischiano di essere sempre meno tutelati rispetto alle pretese di un fisco molto esoso.
La giustizia tributaria, come quella penale e civile, ha infatti tre gradi di giudizio: le commissioni tributarie provinciali (Ctp), le commissioni tributarie regionali (le Ctr che si occupano degli appelli) e, ovviamente, la Sezione tributaria della Cassazione che giudica la legittimità delle sentenze senza entrare nel merito. Poiché il ruolo della Suprema Corte non si può «cancellare» con un tratto di penna del Parlamento, in quanto legifererebbe in contrasto con le prescrizioni della Costituzione, è chiaro che Conte abbia implicitamente alluso alle commissioni tributarie regionali.
Per comprendere meglio è necessario fare ricorso ad alcuni dati statistici. Nei primi 9 mesi del 2019 le commissioni tributarie provinciali e regionali hanno definito circa 160mila ricorsi, mentre ne restano giacenti oltre 360mila. In prima istanza, cioè presso le Ctp, nel terzo trimestre 2019 circa tre ricorsi su 4 andati a sentenza avevano un valore inferiore a 20mila euro. Lo Stato, molto spesso l'Agenzia delle Entrate guidata da Antonino Maggiore (in foto) ha vinto quasi una volta su due (47,4% dei successi), mentre il contribuente ha avuto ragione meno di una volta su tre (28,7%). Presso le Ctr, invece, il contribuente ha qualche chance di vittoria in più (32,6% contro 49,5%). In Cassazione nel 2018 l'Agenzia delle Entrate e l'Agenzia delle Entrate- Riscossione hanno vinto più di due volte su tre nei confronti del cittadino.
Abolire un grado di giudizio significa, pertanto, rendere più complicato per il contribuente far valere le proprie ragioni, di fatto «invitandolo» o a saldare direttamente la cartella oppure ad avviare una procedura di conciliazione con il Fisco, prassi generalmente più seguita dalle aziende.
Il Consiglio nazionale
forense, organismo di rappresentanza dell'avvocatura, si è indignato invocando tanto il rispetto della Costituzione quanto la necessità di fornire al contribuente «maggiori mezzi di prova» vista la disparità con le Entrate.
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