Cronache

"Ho risalito gli abissi per tre volte. Meglio una pasticca che la resa"

Lo scrittore e il caso dell'ingegnere suicida per depressione: "Eutanasia? Servono cure"

"Ho risalito gli abissi per tre volte. Meglio una pasticca che la resa"

La depressione «è un po' come le doglie», dice Roberto Gervaso: «Devi provarla, per capire che cosa sia». Lui l'ha provata, tre volte, e tre volte l'ha superata, come ha raccontato nel suo libro Ho ucciso il cane nero (Mondadori, 2014). Oggi, a ottant'anni compiuti (due mesi fa), dichiarandosi «una nullità assoluta» («fa tutto mia moglie... Io, a parte scrivere e leggere, non so fare niente»), con un libro in uscita il mese prossimo (un pamphlet sull'Italia, sempre Mondadori, Le cose stanno così, titolo «un po' presuntuoso, però non se ne può più di quello che succede, e della descrizione che se ne dà»), Roberto Gervaso riflette sul caso dell'ingegnere di 62 anni, malato di depressione e andato a morire in una clinica svizzera. «Io sono contrario all'eutanasia».

Perché?

«Soprattutto per una ragione: può diventare uno strumento di morte in mano a parenti che vogliono liberarsi di un congiunto malato o che lascia una eredità. E poi è molto arbitrario».

In che senso?

«Quando uno soffre tanto, non ama più la vita. Teme sempre la morte, ma il disamore per la vita è più forte della paura della morte. Quindi, per non soffrire più, sceglie la morte».

In questo caso l'uomo era malato di depressione.

«La depressione devi capire che cosa sia: è il crollo della volontà, il rogo dell'anima, l'abisso dello spirito. È davvero il male oscuro e la perdita di ogni interesse; e la certezza - falsa, illusoria - di non potere più riguadagnare questo interesse. Un senso di disperazione incolmabile».

È sempre così?

«Bisogna distinguere. C'è la disperazione maggiore, melanconica: quella che ha portato questo signore all'eutanasia. E c'è quella minore, ansiosa, uno stato di malessere momentaneo e blando».

Nel primo caso?

«Precipiti nella fossa dei serpenti. Vedi tutto nero, pensi solo e sempre al peggio. Sei convinto che per te non potrà mai più esistere il meglio».

Però lei ne è uscito, tre volte.

«Dalla depressione si può guarire. E questo perché ci sono delle cause scatenanti, per esempio un grave lutto, una malattia, la perdita del lavoro, il divorzio - che invece dovrebbe essere l'occasione di un festeggiamento... - o un trasloco; ma c'è anche una componente biochimica, che molti sottovalutano, ovvero il crollo della serotonina, un neurotrasmettitore».

Perciò servono i farmaci?

«Uno li deve prendere e, mentre lo fa, è convinto che non guarirà mai: è convinto che la sua dannazione, che è vera in quel momento, sarà definitiva».

È così?

«Perdi ogni speranza, anche se non è vero che sia così: io ne sono uscito. Però in quel momento pensi a tutto. Io non ho pensato all'eutanasia, però ho pensato, visto che a Roma abitavo in un attico: Mi butto dal sesto piano».

E poi?

«Ero così sfiduciato che mi convinsi che pure quello fosse solo un palliativo. Pensai che la depressione sarebbe stata ineluttabile, fatale, infinita. Io ho avuto un tumore alla prostata e fatto una operazione al cuore lunga sette ore. Ma, se mi chiedessero di scegliere fra il tumore e la depressione, sceglierei il tumore mille volte. In quello stato pensi solo alla tua disperazione. Uno vorrebbe guarire, ma è convinto che non guarirà; anche se poi succederà, come è successo a me, dopo cinque anni».

Quell'uomo...

«Aveva una depressione profonda, aveva perso tutti i suoi affetti. Era convinto che tutto fosse finito. E quando sei certo che tutto sia finito prendi decisioni estreme, che sono sbagliate. Montanelli, che ogni vent'anni aveva una depressione spaventosa, una volta a Villa Borghese mi abbracciò e mi disse: Basta Robertino, mi elimino».

Che cosa si può fare?

«Non devi giudicare la persona dall'esterno, in quello stato. Il problema sono le cliniche per l'eutanasia. Se quell'uomo fosse andato in una clinica psichiatrica seria... Io capisco lui, ma non assolvo chi pratica l'eutanasia. Piuttosto risolvi da te, come Marilyn Monroe.

Ma che gli altri, parenti, amici e soprattutto una clinica ti aiutino, no».

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