C'è una certa eleganza nel fatto che l'ultimo bene sequestrato a Totò Riina, prima che rendesse l'anima a Dio, sia stato un luogo sacro: i terreni del Santuario Maria Santissima del Rosario, nella sua Corleone. Anche quei campi, destinati a sostenere con i loro frutti l'attività pastorale, finanziavano in realtà il vecchio padrino e il suo clan. E ora che Riina non è più tra noi, forse quei beni potranno tornare nelle mani della Diocesi di Monreale, che all'indomani del sequestro si era mostrata comprensibilmente costernata.
Insieme ai sacri terreni, i carabinieri del Ros nel luglio scorso portarono via ai familiari di Riina 32 conti correnti, per un totale di un milione e mezzo di euro. Importo cospicuo per un comune mortale, un po' deludente se confrontato al mito delle ricchezze di Cosa Nostra, agli studi macroeconomici che ne fanno la prima azienda del Paese, 150 miliardi di fatturato annuo, più di Exor, il doppio dell'Enel, il triplo dell'Eni. Così in quella occasione - e a maggior ragione oggi, con i resti di Riina avviati a illacrimata sepoltura - fu inevitabile tornare a interrogarsi sulla distanza profonda tra la mafia raccontata dalle analisi, la Spa planetaria di cui parlano pentiti e statistiche, e la realtà di beni terrigni, opulenti e rozzi che traspare dai provvedimenti di sequestro. Che poi è la stessa distanza tra l'immagine di un moderno boss imprenditore, ad di una Cosa Nostra ltd in grado di muoversi nell'economia globale, e il viddano semianalfabeta sepolto da un quarto di secolo in un carcere di massima sicurezza. Quale era il vero Totò Riina, come convivevano in lui i due volti? La domanda è cruciale, perché ne porta con sé un'altra: se Totò è stato fino alla fine il capo dei capi, dove approda adesso lo scettro del comando, a chi finisce il pacchetto di controllo della company?
Se si frugano i 24 anni trascorsi dal giorno in cui «Ultimo» e «Vichingo» tirarono giù di peso 'u curtu dalla Citroen del suo autista, l'elenco dei sequestri a ripetizione di beni che hanno colpito lui, la sua famiglia fino al centesimo grado di parentela, e poi complici, compari e prestanome, non si può che restare delusi. Tesori, indubbiamente: ma tesori fatti di villini a Mazara e negozi di auto usate, libretti di risparmio e capannoni di periferia. L'ultimo censimento completo dei beni di Riina risale ormai a molti anni fa: 300 appartamenti e uffici, 38 appezzamenti di terreno, 1.685 ettari coltivati a vigneto. Valore totale, un'ottantina di milioni sequestrati dallo Stato. Okay, ma il resto?
La spiegazione più ovvia è che quelli non sono i beni di Cosa Nostra ma il patrimonio personale di Riina, i fringe benefit accumulati negli anni. E che, al di sopra di questo inventario un po' mezzadrile, esista un altro livello, un universo parallelo dove i profitti miliardari di Cosa Nostra si sono riversati nel corso degli anni, riversandosi nella new economy e lavandosi nei circuiti della finanza. È chiaro che non potevano essere né Riina né Provenzano, che non hanno mai visto un computer in vita loro, a dirigere questo valzer di quattrini, e che anche lì, da qualche parte, devono muoversi le menti raffinatissime di cui parlava Falcone. Queste menti adesso con chi si rapporteranno, a chi daranno conto? Il principio è quello della continuità aziendale, come spiegò lo stesso Riina ai colletti bianchi che avevano fatto affari con la vecchia mafia palermitana, da lui sterminata e soppiantata: «Adesso rendete conto a me». Oggi è lui ad uscire di scena, non a colpi di kalashnikov in una strada di Palermo ma intubato nel verde asettico di una stanza d'ospedale.
Poiché il crepuscolo di Riina è stato lungo, la transizione ha potuto venire trattata e organizzata con calma e cautela. E da qualche parte forse c'è già qualcuno - e non è detto che sia Matteo Messina Denaro - pronto a presentarsi agli gnomi che hanno le chiavi del caveau a ricordare che il padrino è morto, ma la ditta è viva.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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