Roma È un malcostume piuttosto diffuso tra i lavoratori, almeno tra coloro non propriamente stakanovisti, quello di attaccare al fine settimana o alle festività qualche giorno di ferie o malattia per garantirsi il tempo di una mini-vacanza alla faccia di chi rimane al palo.
Una pratica mal tollerata dai datori di lavoro, che di fronte a certi comportamenti di un qualche dipendente si ritrovano per lo più con le mani legate. Da ora in poi, però, i capi avranno un'arma in più per contrastare i furbetti delle vacanze programmate, perché la sezione Lavoro del Tribunale di Roma - riconoscendo la legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro per una serie di assenze «a macchia di leopardo» di una dipendente - ha stabilito con una sentenza innovativa che ferie, malattie e permessi sempre adiacenti ai weekend o alle feste, oppure comunicati all'ultimo momento, valgono a qualificare la prestazione lavorativa come connotata da scarso rendimento. Nel caso in questione la lavoratrice aveva collezionato ben 120 giornate di assenza su 248. Un numero esagerato per essere accettato anche dal più tollerante dei datori di lavoro. Dopo essere stata licenziata, la dipendente aveva fatto ricorso al giudice del lavoro, confidando in una pronuncia a lei favorevole. Invece il Tribunale - traendo spunto dalla sentenza della Cassazione n. 18678 del 4 settembre 2014 - ha rigettato il suo ricorso e l'ha condannata al pagamento delle spese processuali. Questo perché il giudice ha ritenuto che la gran quantità di assenze avessero reso il lavoratore non sufficientemente e proficuamente utilizzabile dal datore di lavoro, nonché pregiudizievole per la stessa organizzazione e produzione aziendale. «La presa di posizione del Tribunale è sul punto estremamente coraggiosa - commenta l'avvocato Roberto Podda - in quanto trasforma in diritto vivente alcuni principi che, fino ad oggi, avevano faticato ad affermarsi non solo nelle corti di merito, ma anche nella giurisprudenza della Suprema Corte».
Era stata la precedente pronuncia della Cassazione alla quale si è rifatto il giudice capitolino ad aprire un primo varco alla valutazione delle assenze a «macchia di leopardo» del lavoratore come sintomo di scarso rendimento e motivo di pregiudizio per l'attività aziendale, sterzando rispetto al tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità incline a considerare validi solo quei licenziamenti in cui le assenze per malattia del lavoratore avessero superato il cosiddetto periodo di comporto. Ora, invece, possono essere considerate anche le assenze per così dire «strategiche».
«Il decreto del Tribunale va oltre la pronuncia della Cassazione - spiega il legale - in quanto ha esteso la propria valutazione non solo alle assenze per malattia ma anche alle ferie e ai permessi di cui la lavoratrice licenziata aveva fruito immediatamente prima o dopo un periodo di malattia o a ridosso di ponti o festività.
Questo particolare aspetto costituisce una piccola ma importante rivoluzione: qualora infatti la pronuncia trovasse seguito nelle corti di merito o fosse fatta propria dalla Cassazione, diverrebbe essenziale per stabilire la legittimità di un licenziamento intimato in casi simili, oltre alla quantità di assenze per malattia, anche la collocazione a macchia di leopardo delle assenze».
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