Dopo la ritirata di giovedì, Matteo Salvini si attacca ad una nuova nave di disperati per cercare la riscossa: «Io non mollo, anzi», tuona via Facebook.
Ma il pasticciaccio della nave Diciotti, risolto solo da un intervento del Capo dello Stato che ha fatto uscire l'esecutivo dalla confusa impasse in cui si era infilato, restituisce l'immagine di una compagine governativa alquanto allo sbando, ostaggio di frenesie propagandistiche dissonanti, che finiscono per cozzare tra loro. Il problema è che, dopo neppure due mesi, la famosa «diarchia» Di Maio-Salvini che - in assenza di un capo di governo, vista l'evanescenza di Giuseppe Conte - avrebbe dovuto condurre la compagine gialloverde verso il sol dell'avvenire, si è trasformata in una maionese impazzita. Con buona pace dei cantori anche giornalistici (il termine fu coniato sul Corriere da Massimo Franco), che iniziano a intuire che la loro formula politica traballa vistosamente, sotto il peso dei contrapposti interessi elettorali e di visibilità dei loquaci dioscuri.
Basta mettere in fila solo le ultime esternazioni ministeriali (sorvolando sui pur recenti screzi su decreto Dignità, voucher e pensioni) per farsene un'idea. Salvini, stoppato da Mattarella, fa trapelare il suo irritato «stupore» per l'intervento del Quirinale che ha consentito a una nave della Marina militare italiana (e non dei corsari) di attraccare in un porto italiano. Luigi Di Maio (che si è visto oscurare il suo party anti-vitalizi dalle battaglie navali salviniane) si schiera allora col Colle, per il quale poche settimane or sono chiedeva l'impeachment: «Se il presidente della Repubblica interviene bisogna rispettarlo», dice. Poi, davanti alle domande dei cronisti, si barcamena: «Non me ne frega niente se Salvini ha esagerato o meno, l'importante è che con l'intervento del Quirinale si è sbloccata la situazione».
Nel frattempo Salvini è passato ad attaccare anche la procura di Trapani, esprimendo «rammarico» perché i magistrati non hanno subito arrestato i profughi sbarcati, come chiedeva il ministro dell'Interno. E questo fa saltare su come una molla l'implacabile Piercamillo Davigo, appena eletto al Csm e padre spirituale del giustizialismo grillino: «Salvini non fa il pm», bacchetta. A quel punto si sveglia il Guardasigilli Alfonso Bonafede, che di Davigo è ammiratore e discepolo, e redarguisce immediatamente l'inquilino del Viminale. Reduce da un clamoroso scivolone sul Tribunale di Bari, da lui trasferito a suon di milioni di euro in un edificio di provenienza assai sospetta, Bonafede critica gli sconfinamenti del collega leghista: «I magistrati lavorano in piena indipendenza ed autonomia rispetto al potere politico. Stanno facendo tutte le valutazioni e stanno contestando i reati che loro ritengono di contestare in base a quello che accertano. Lasciamoli lavorare e da parte mia c'è piena fiducia».
Nel frattempo c'è il povero Toninelli, titolare delle Infrastrutture, che brancola come un'anima in pena, un po' con Salvini, un po' con Mattarella: il ministro, che non distingue un incrociatore da un rimorchiatore, cerca di stare sul pezzo e di mostrare che decide qualcosa, ma viene in genere sopravanzato dai fatti e dalle decisioni altrui.
Il pensoso presidente della Camera Fico (cui la Casaleggio ha affidato il presidio del «fronte sinistro» del partito) assicura che comunque tutto va bene: «Secondo me il governo ha lavorato insieme per superare le problematiche», è la sua lettura, piena di buona volontà. Lui comunque è contento, avendo tagliato la pensione a qualche anziano ex deputato. Ieri sia lui che il redivivo premier Conte hanno incontrato i genitori di Giulio Regeni, assicurando il proprio impegno per fare giustizia sul caso del giovane ricercato seviziato e ucciso in Egitto.
«Il governo è con voi, faremo tutto ciò che è necessario per giungere alla verità», dicono. E qualche maligno ci legge una piccola provocazione a Salvini, che giorni fa aveva asserito che «le buone relazioni con l'Egitto» sono più importanti del «problema Regeni».
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