Ogni volta che il reagente dà esito positivo è un dolore. E d'accordo che queste ultime tre settimane sono state lunghe quanto un anno di lavoro, d'accordo che ormai i tamponi arrivano in batterie di 50 alla volta e si lavora come in una catena di montaggio. Ma nessuno nei laboratori riesce ancora a essere indifferente di fronte al risultato di un test positivo al virus. Le provette non hanno nomi, non hanno volti, ma scoprire che spesso decretano una sentenza di morte non è una cosa facile da digerire. I microbiologi sono al lavoro con turni da 12 ore e si sono organizzati in tutta Italia per tenere aperti 24 ore su 24 i laboratori in cui vengono analizzati i tamponi, in particolar modo nelle zone più critiche. Sanno perfettamente che non c'è tempo da perdere e che, prima arriverà il risultato, meglio sarà. Dal ritmo del loro lavoro dipendono i numeri che ogni pomeriggio ci vengono annunciati dalla Protezione civile. Numeri dietro ai quali ci sono doppi turni, pasti e docce saltate, figli sentiti un minuto al telefono e via. E mentre in Italia si discute ancora se estendere i tamponi a tappeto o meno, un'azienda di Brescia, direttamente dal cuore dell'epicentro, vende e spedisce una fornitura di un milione e mezzo di kit diagnostici negli Stati Uniti. E si scatena la polemica.
«Durante i primi giorni di emergenza, riuscivamo a dare il risultato del test in 6 ore - spiega Elena Pariani, referente del dipartimento di Scienze biomediche per la salute dell'Università Statale di Milano - Poi il flusso di lavoro è diventato enorme, ci sono state giornate in cui abbiamo analizzato oltre 300 tamponi al giorno. Ora che siamo stati affiancati da altri centri, oltre a quello del Sacco e del San Matteo di Pavia, viaggiamo sui 100 esami al giorno e il lavoro è più distribuito. Cerchiamo di dare ai medici tutto il supporto possibile e sappiamo perfettamente che non si può perdere un minuto nella diagnosi». A lavorare ininterrottamente tra provette, cappe aspiranti e referti da compilare ci sono 8 persone, «alcune delle quali tra un anno potrebbero non avere più un contratto. Ma non si tirano indietro e ce la stanno mettendo tutta, compresi i tirocinanti e i tecnici».
A Napoli, al laboratorio del Colli Monaldi-Cotugno, i tamponi arrivano con un ritmo di 250 al giorno e ad analizzarli c'è una squadra composta da 5 laureati, 5 dirigenti medici e 5 tecnici. «Dalla prossima settimana - annuncia il responsabile, Luigi Atripaldi - riusciremo ad analizzare fino a 700 tamponi al giorno. La Roche ci ha identificati per farci avere i kit dalla prossima settimana, velocizzeremo il lavoro. In questi giorni il nostro team lascia il laboratorio a mezzanotte e alle sette del mattino è già qui». A Napoli i ricercatori stanno conducendo anche un lavoro sugli anticorpi post infezione e si sono resi conto che in alcuni casi i pazienti guariti dal coronavirus non hanno «mantenuto la memoria» della malattia. «Questo aspetto andrà approfondito - spiega Atripaldi - ma è molto interessante».
In Umbria ci risponde al telefono Antonella Mencacci, virologa responsabile del laboratorio di microbiologia dell'azienda ospedaliera Santa Maria della Misericordia di Perugia. Arriva da una nottata in bianco. «Abbiamo creato una task force dedicata all'emergenza - ci spiega - per poter tenere aperto il laboratorio ininterrottamente. Praticamente viviamo qui dentro. In tutto siamo 25 persone e ci siamo riorganizzato per dedicare ai tamponi il 70% del personale del laboratorio. Analizziamo 300 campioni in un giorno e diamo sempre la risposta in giornata».
Anche in Emilia Romagna al Centro di riferimento regionale per le
emergenze del policlinico Sant'Orsola di Bologna, Maria Carla Re ci spiega che non c'è un attimo di sosta. «Stiamo per mettere in funzione un nuovo macchinario, un estrattore. Ci potrà dare una gran mano per velocizzare i tempi».
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