"Qui è l'inferno ogni giorno"

I volontari del 118: "Addestrati per terremoti e disastri ma non per questo. Il peggio è passato? È un'illusione"

"Qui è l'inferno ogni giorno"

«Vuoi vedere come lavoriamo? Bene ti spediamo all'inferno. Vai a Bergamo con Alessandro e Sergio». Elio Di Leo, coordinatore della Misericordia di Arese, una delle più grandi associazioni di volontariato del 118 mi saluta così. Squadro i suoi volontari. Mi verrebbe da chiamarli i miei «monatti». Ma il soccorritore Alessandro Bernocchi, 32 anni, e Sergio Venerus, 55enne, ingegnere informatico, non ne hanno né la faccia, né l'indole. I monatti del Manzoni trasportavano gli appestati e ne razziavano gli averi. Alessandro e Sergio rischiano la vita e ci regalano la loro fatica per tirarci fuori dalla catastrofe. Catastrofe. La parola salta fuori mentre l'ambulanza divora l'asfalto grigio che lassù verso Bergamo s'infila sotto il cielo plumbeo e greve.

«Siamo addestrati per terremoti e disastri chimici, ma non per questo. Qui riflette Alessandro - è come se esplodesse una fabbrica ogni giorno. E' la catastrofe quotidiana. Per questo è dura». All'Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo Sergio m'inizia al rito della vestizione. «Lavati le mani, disinfettale, infila i guanti, metti la tuta sterile, inforca gli occhiali, posiziona la mascherina, metti copri-scarpe, chiudi con il secondo paio di guanti. Ma attento, se sbagli rischi». Poi si passa da Raniero Frizzini. E il responsabile del Soreo, coordina tutte le ambulanze. Da dietro la mascherina è il simbolo della fermezza. Racconta delle 70 ambulanze e delle 40 di rinforzo pronte a battere la provincia di Bergamo. Ti mostra la curva degli interventi «Millecento36 solo ieri, solo in provincia di Bergamo capisci?». Gli chiedi se ha paura. Lo ascolti crollare. La voce diventa un singhiozzare spezzato. «Devo reggere il colpo. Devo farlo per i nove operatori, i sei infermieri e i 4 medici caduti malati. Ma a casa la sera lo confesso vince l'angoscia». Ora sussurra anche lui la parola fatidica. Catastrofe.

«Nessuno lo dice, nessuno lo ammette, ma più t'illudi che il peggio sia andato più ne vedi dell'altro arrivare. Solo i miei uomini mi danno la forza Più si ammalano più gli altri pretendono doppi turni». Ora si va. Nell' ambulanza le parole diventano sussurri deformati dal tappo delle mascherine . La base è in via Corridoni a Bergamo. Neanche il tempo di parcheggiare e la centrale ci spedisce in via Borgo Palazzo. Fuori dalla Crocerossa sembriamo fantasmi bianchi nel deserto, le facce mascherate, gli occhi schermati la testa coperta. Più che monatti extra-terresti venuti a rapire gli umani. Ma nessuno si stupisce. Per i rari passanti coperti dalle mascherine siamo gli eroi della nuova guerra. «Ma la guerra è appena incominciata», si lamenta Sergio mentre sale verso l'abitazione da dove è partita la richiesta di soccorso. Lui e Alessandro sono «soccorritori avanzati» capaci di valutare lo stato di un paziente, rianimarlo e stabilizzarlo. Ma qui il grande dubbio è sempre lo stresso. Mandarli all'ospedale o lasciarli a casa? «Ha 65 anni, la saturazione del sangue a 90 e quindi può avere il Covid spiega Sergio quando ridiscende - ma al pronto soccorso rischi il contagio quindi se non sono gravi meglio lasciarli a casa». Rimontiamo sull'ambulanza la gente saluta. «Questo è quello che mi da la carica», ripete Alessandro mentre divora le strade deserte. Risuona il telefono. Lui pigia il freno si butta in una piazzola. «Stavolta è un codice rosso, uomo 75 anni, insufficienza respiratoria, destinazione Dalmine». La fermata è un viottolo sperduto tra la statale e le campagne, tra condomini e villette a schiera. Anche qui la sirena non impressiona più. Nessuno sguardo curioso, nessuna domanda. Solo qualche frettoloso scuoter di teste e un accelerare del passo. Poi il codice rosso arriva. Non sembra star male, ma respira a fatica. Sergio si consulta con la centrale, decide «Ha patologie pregresse, un fisico debilitato e sintomi rilevanti. Lasciarlo a casa non si può».

Dieci minuti dopo siamo al Policlinico San Marco di Zingonia. Un'ora dopo il nostro codice rosso è ancora lì. «Ci vorranno delle ore - ripete Sergio - è il triage. Devono capire se e quanti respiratori hanno. Succede in ogni grandi catastrofe. Qui, invece, succede ogni giorno».

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