Emanuele Filiberto, auricolare all'orecchio, guarda trasognato l'ingresso del santuario. Entra, fra i saluti e gli omaggi della guardia d'onore, poi esclama: «Qua si fa la storia». Suo padre, Vittorio Emanuele, viene portato fin sull'ingresso in macchina. È molto affaticato, borbotta, schegge di emozione. Modernità e tradizione. Si parla italiano e francese, in un melange da grand hotel, come nella storia dei Savoia.
Le tombe sono nella cappella di San Bernardo, sotto l'incredibile cupola ellittica più grande d'Europa. Un'imbragatura, per scalare gli ultimi 10 metri della parete, porta fin sulla sommità, a quota 75. Sotto, i Savoia, o meglio la mezza famiglia che si è presentata per questa breve preghiera, sono già dentro. Maria Gabriella, l'artefice del rientro delle salme, non c'è. Come non ci sono nemmeno il Duca d'Aosta e Aldo Alessandro Mola, l'autore di una monumentale storia della massoneria che è stato un po' il regista di questa lunga operazione, sull'asse Ginevra-Quirinale. Era stato lui a ispirare la lettera con cui Maria Gabriella e Vittorio Emanuele chiedevano al Presidente Mattarella l'ok al ritorno dei nonni. Ora c'è solo quel principe anziano e al suo fianco la consorte Marina Doria. Don Bartolomeo Bessone, il rettore del santuario, li accoglie con un sorriso, Vittorio contraccambia domandando un'invocazione alla Vergine. La lettura è breve e paradigmatica: un brano dell'Esodo. Mosè depone i vecchi calzari davanti al roveto ardente. «Ecco i vecchi calzari», risponde autoironico l'anziano principe, indicando le gambe che gli hanno tirato brutti scherzi.
Pregano tutti insieme, mentre il sacerdote vola con disinvoltura avanti e indietro fra i secoli, puntando infine sul 2 aprile 1595, il giorno in cui il duca Carlo Emanuele, pellegrino come Mosè e come questi feretri, si fermò quaggiù, ripetendo quel mantra: «Sono qui per deporre i vecchi calzari». Il santuario si sviluppò su quella suggestione, Carlo Emanuele riposa nella cappella. A due passi le tombe fresche del re e della regina Elena, salutata con un cuscino di rose rosse e bianche. Sulla lastra regale spicca una piccola stella a cinque punte, interpretabile in mille modi come la saga di questa casata che ha fatto e disfatto l'Italia. «Qua dentro siamo tutti uguali», sibila l'anziano capofamiglia accoccolato su una sedia.
Il prete scherza, gioca la carta dell'albero genealogico lussureggiante: «Appartengo a una famiglia numerosa, con tredici nipoti e pronipoti, come voi che siete padri, nonni, bisnonni. Giusto, o sbaglio?». «Ci fermiamo ai bisnonni», sta al gioco Emanuele Filiberto. La cerimonia volge rapida al termine.
L'europarlamentare Mauro Borghezio, che ha ascoltato impettito il rito, stringe le nobili mani e si congeda con l'enfasi trasmessa in tanti comizi leghisti: «Vittorio Emanuele III è stato un grande re». Il nipote che non ha mai regnato si avvicina al sindaco Walter Roattino: «Grazie per la sciarpa», ovvero la fascia tricolore esibita con fierezza.
La piccola corte sciama fuori. Cappelli borsalino, baffi, pettinature anni Trenta: l'effetto cinegiornale è straordinario. Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia, ringrazia il reverendo. Una folla sparuta sprizza euforia; tutti vogliono il selfie con Emanuele Filiberto. Labari, bandiere, grida: «Viva il re». Il freddo punge, c'è neve dappertutto, mancano solo i contestatori. Le guardie del Pantheon, in divisa, srotolano il cerimoniale, Sua altezza reale completa il ragionamento: «Questa è una tappa, l'obiettivo è portare i bisnonni al Pantheon». Gli storici storcono la bocca, la comunità ebraica non gradisce, Emanuele Filiberto dribbla le insidie: «Io le salme non vado a metterle in un giardino, ma al Pantheon, l'ultima dimora dei re d'Italia». Intanto, il padre promette al sindaco un pranzo a base di tartufi.
Da Roma arrivano solo altolà.
Il presidente del Senato Pietro Grasso pianta solidi paletti: «Si alla pietà, no al revisionismo». E la «sindaca» di Roma Virginia Raggi è ancora più categorica: «La scelta del Pantheon è inopportuna». Vicoforte, almeno per ora, può bastare.
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