Roma Forse il Pil del 2019 non partirà con il segno meno, ma la crisi italiana non è finita. La mini ripresa è nei numeri della produzione industriale diffusi mercoledì scorso e salutati dai Cinque stelle con una post sui social di gusto pessimo (una vecchia foto di un malore di Silvio Berlusconi).
Vero che l'Istat ha registrato un aumento dell'indice destagionalizzato della produzione industriale dello 0,8% rispetto a gennaio. Il secondo segno più dopo quattro cali consecutivi, un «Tiramisù» per l'economia italiana secondo l'agenzia Bloomberg, soprattutto perché nel resto dell'Eurozona lo stesso indice è calato dello 0,2%. Sempre sul fronte delle buone notizie, il contributo dell'Italia alla variazione della produzione industriale dell'area Euro nei primi due mesi del 2019 è stato intorno al 36%, mentre la Germania ha contribuito al risultato finale con -21%, sempre secondo l'agenzia stampa statunitense. Staremmo battendo la prima potenza economica europea, insomma. Poi però si scopre che l'Italia sta perdendo la seconda posizione nella classifica dei Paesi manifatturieri, passando al terzo posto dopo la Francia. Dato contestato da Confindustria.
Schermaglie metodologiche a parte, i problemi restano tutti. La produzione industriale non è un indice anticipatore, dà il senso della situazione attuale, non di quello che accadrà in futuro. È invece un indice anticipatore il Purchasing manager index rilevato da Ihs Markit, basato su sondaggi sui direttori per gli acquisti. In marzo l'indice Pmi italiano è sceso dal 46,1 al 44,9, il livello più basso dal 2013. La soglia che separa una previsione di recessione da una di espansione è di 50.
Ma c'è dell'altro. Il boom della produzione industriale potrebbe non rispecchiare un'inversione di tendenza, ma essere una reazione alla contrazione registrata nell'ultima parte del 2018. Le aziende starebbero ricostruendo le scorte dopo mesi di acquisti ridotti al minimo. Una necessità legata alla produzione. Meccanismo simile a quanto avvenuto nel Regno unito dove le aziende nei mesi scorsi hanno fatto scorte extra in vista di una hard Brexit.
Paradossalmente il dato positivo salutato nei giorni scorsi come l'atteso segnale di fine recessione potrebbe essere un'altra conseguenza della crisi.
Ma anche se dall'industria e dai servizi (che generalmente stanno reggendo meglio) continuassero ad arrivare buone notizie, non sarà la svolta per il Pil. Difficile che il 2019 si chiuda con percentuali superiori a quella comunque molto realistica che il governo ha inserito nel Def, cioè lo 0,2%.
Secondo una stima di Mazziero research, assumendo una crescita dello 0,1% nei primi due trimestri dell'anno, per ottenere lo 0,2% a fine 2019 servirebbe un trimestre a +0,3% e un altro allo 0,2%. Con una crescita allo 0,2% in entrambi i trimestri si arriverebbe allo 0,1%. Se invece durante tutto l'anno la crescita non superasse lo 0,1%, il Pil del 2019 si fermerebbe a zero.
L'ultimo scenario non è da escludere. L'effetto del decreto crescita, dello sblocca cantieri sul Pil, sarà limitato per stessa ammissione del governo e anche per il 2020 non sono in vista inversioni di tendenza.
Perlomeno non sarà la politica a dare risposte, visto che anche per il 2020 il governo annuncia una legge di Bilancio che punterà, un po' come è stato fatto con reddito di cittadinanza e Quota 100, a redistribuire ricchezza. Senza preoccuparsi di crearla prima.
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