Roma - Il suo nome non è finora uscito fuori, ma Rainer Stefano Masera è uno di quegli esperti che avrebbero potuto salvare Banca Etruria, ma a cui non fu dato ascolto. Il nome del famoso banchiere ed economista, ex ministro nel governo Dini, lo citano gli ispettori di Bankitalia nella loro seconda relazione, del 6 settembre 2013, per testimoniare che l'istituto di credito toscano non seguiva il suggerimento di far entrare nel cda «esponenti connotati da elevata professionalità ed esperienza presso intermediari medio grandi». Quando ci si provò, fu un fallimento. Infatti, sottolineano gli inviati di Palazzo Koch, Masera fu cooptato nel cda il 14 settembre 2012, in sostituzione della dimissionaria Laura del Tongo, e rassegnò le dimissioni il 9 novembre dello stesso anno.
Professore, perché lasciò Banca Etruria presieduta allora da Giuseppe Fornaciari dopo appena un mese, proprio quando l'assemblea straordinaria dei soci varava un aumento di capitale di cento milioni di euro?
«Perché mi è bastato poco tempo per rendermi conto che l'aumento di capitale era necessario e infatti io ne ho favorito le condizioni, ma non era di per sé sufficiente per il risanamento della banca».
Che cosa serviva?
«Un piano industriale forte, basato su un taglio dei costi, una ricerca di revenues aggiuntive, insomma una strategia per migliorare la redditività attraverso nuove entrate. I problemi di Banca Etruria erano fondamentalmente legati alla crescita molto rilevante delle sofferenze e con l'aumento di capitale non si realizzavano le condizioni per la ripresa dell'istituto, che aveva bisogno di redditività e di credibilità sul mercato. Infatti, un aumento di capitale non risolve di per sé i problemi, anzi può anche aggravarli se non si accompagna ad altri interventi industriali adeguati».
Lei fu chiamato nel cda di Banca Etruria, in cui sedeva anche Pierluigi Boschi, in un momento difficile e gli ispettori di Bankitalia la citano come esempio delle qualità professionali necessarie per controbilanciare l'incapacità di gran parte degli amministratori, che un po' per mancanza di competenze e un po' per conflitti d'interesse personali, non volevano seguire le raccomandazioni di Palazzo Koch.
«Sì gli organi della banca, forse con il parere di qualche autorità, mi vollero in quel ruolo proprio con queste motivazioni. E io accettai anche perché si trattava di un territorio che conosco bene. Ma è stato sufficiente un mese per capire che i problemi di Banca Etruria non si potevano risolvere sulla strada che volevano scegliere gli altri amministratori».
Erano necessari gli interventi indicati da Bankitalia e ignorati dai vertici dell'istituto toscano?
«Non so se si trattasse di quelli, certo come ho detto ci voleva un serio piano industriale con una serie di misure, a partire dal taglio dei costi, accanto all'aumento di capitale».
Nell'estate del 2013 lei fu chiamato a presiedere Banca Marche, un altro degli istituti «salvati» dal decreto del governo. Anche in quel caso, diede le dimissioni tre mesi dopo e poi Bankitalia decise di commissariare l'istituto, mettendolo in amministrazione straordinaria.
«Lì, però, la situazione era differente. La banca si sarebbe potuta salvare con l'aumento di capitale, se ci fosse stato un intervento del governo da 450 milioni di euro, valutato in base ai crediti della banca».
I Monti bond concessi al Monte dei Paschi di
Siena?«Era una sfida, se fossero stati concessi si sarebbe potuti andare avanti con il piano di risanamento. Ma non si fece il tentativo di trovare quella somma per i bond e io preferii lasciare la guida dell'istituto».
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