Roma All'ascesa fulminea del M5s a livello nazionale è corrisposto il flop dei pentastellati nei comuni. Tanto che dopo il disastro delle urne del 10 giugno, nel Movimento, che vede in Luigi Di Maio l'accumulo di tre cariche, si fa strada l'idea di creare a una struttura per la gestione dei gruppi locali, gli ex Meet up ora ridotti a un puzzle di comitati elettorali senza nemmeno una sede. Dopo essere stato il primo serbatoio di voti per il Movimento degli inizi, negli anni, di pari passo con un accentramento sempre più evidente del potere nelle mani del quartiere generale milanese, i gruppi locali sono diventati sempre più litigiosi, aprendo faide tra correnti rivali e soprattutto covando spesso una ribellione alla linea dei vertici. Alcuni sono diventati più che una risorsa una grana per il movimento, tanto da spingerlo alle ultime amministrative a non concedere il simbolo, come nel caso di Siena, Vicenza e non solo.
La débâcle elettorale ha radici politiche ma anche economiche. Perché con tutti gli sforzi che sono stati concentrati per l'impresa della conquista di Palazzo Chigi, con la poderosa campagna di fundraising a caccia di risorse e donazioni per finanziare la campagna per il 4 marzo, nulla o quasi è rimasto per le amministrative locali. «Ci hanno abbandonati», denuncia l'attivista ed ex consigliere dei pentastellati a Vicenza, Daniele Ferrarin. Prima dell'esclusione dalla partita elettorale, con la decisione di negare il simbolo all'aspirante candidato Francesco Di Bartolo, a cui sono seguite le dimissioni dal Movimento, «noi attivisti avevamo fatto due mesi di campagna elettorale. Mettendo tutto di tasca nostra, senza alcun aiuto dal M5s. È evidente che senza alcun supporto economico e non solo ai gruppi locali, è difficile affrontare campagne contro partiti strutturati. È chiaro che tutte le risorse sono servite per supportare le Politiche». E se l'associazione Rousseau potrà contare d'ora in avanti su 300 euro al mese versati da ogni parlamentare, in periferia la mancanza di fondi si è fatta sentire. Senza sedi, con campagne portate avanti da piccole donazioni locali, nei comuni non è bastato qualche raro comizio dei big per radicare i consensi.
Le spese si sono fermate a poche migliaia di euro nelle città al voto e il M5s, più concentrato su Roma, è rimasto fuori dai ballottaggi. Bilanci di previsione alla mano, mille euro sono stati spesi a Brindisi, poche migliaia di euro preventivati a Velletri, dove correva il fratello del ministro della Difesa Elisabetta Trenta: nonostante sia rimasto escluso dal secondo turno si è detto soddisfatto del risultato vista «una spesa elettorale di poche migliaia di euro contro le centinaia spese dai nostri competitori». Tremila sono stati preventivati dal M5s a Brescia, dove ha vinto il candidato del Pd Del Bono, che invece ha calcolato di spendere 150mila euro. 5mila gli euro messi a preventivo a Viterbo, ma il Movimento anche qui è rimasto fuori dal ballottaggio.
Hanno dato i loro frutti invece i 30mila messi a preventivo ad Avellino, dove i grillini sono riusciti ad accedere allo spareggio con il centrosinistra. E dove anche Di Maio, ormai incoronato ministro, era sceso in piazza per un comizio di chiusura della campagna elettorale.
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