Irpinia, altri 200 milioni da sprecare

Con trenta miliardi sono stati ricostruiti paesi che oggi sono abbandonati. E nelle casse dei Comuni ci sono ancora 200 milioni

Irpinia, altri 200 milioni da sprecare

È finita. Ci sono voluti trentacinque anni, ma la ricostruzione dell'Irpinia è finita. Questa è la notizia buona. Quella cattiva è che hanno ricostruito troppo. Ciò che serviva e ciò che non serviva. I soldi della ricostruzione hanno asfissiato una regione. Lo si vede a occhio nudo, addentrandosi sotto il sole terso di gennaio lungo la Statale 7, che da Avellino penetra nei Picentini e sbuca nella valle dove il terremoto seminò la morte. L'hanno asfissiata così tanto che anche volendo, anche sprecando, anche lastricando ogni viottolo, anche disseminando le campagne di capannoni deserti e i paesi di case senza abitanti, i soldi erano troppi. Il risultato surreale è che oggi oltre duecento milioni di euro stanno lì, abbandonati, sparsi nelle casse dei comuni dello sterminato territorio a cavallo di tre regioni investito dai soldi della ricostruzione: e tra questi ci sono i paesi lungo l'Ofantina dove la sera del 23 novembre 1980 la morte arrivò davvero; ma anche paesi che il terremoto l'hanno visto solo in televisione, e che hanno approfittato della tragedia per dare l'assalto alle casse dello Stato, dando libero corso ad «ataviche aspettative a volte ingenerate con qualche superficialità», come ebbe a dire - con spericolato eufemismo - la commissione che nel 2012 per conto del ministero delle Infrastrutture indagò sullo stato del doposisma. «Ataviche aspettative», ovvero il doposisma vissuto come una sorta di risarcimento al meridione per le ingiustizie della conquista sabauda. E il risarcimento è arrivato. Trenta miliardi di euro, una montagna di soldi che a lungo ha tenuto a galla l'economia di una regione. Al punto che la generazione dei trentenni di oggi, che non hanno vissuto la tragedia del terremoto ma sono cresciuti nell'età dell'oro degli aiuti di Stato, guarda con nostalgia al doposisma. Niente di male, si badi: anche in Friuli, che una tragedia simile l'aveva vissuta nel 1976, quattro anni prima dell'Irpinia, il doposisma fece impennare il prodotto interno lordo. La differenza in Campania sta in questo eccesso di ricostruzione, che emerge con prepotenza dai conteggi del ministero, e che è ancora più palpabile viaggiando lungo il reticolo di strade provinciali, girando per le contrade intorno al cratere, come viene chiamata la zona a ridosso dell'epicentro. Poco prima dello scorso Natale, rispondendo a una interrogazione del deputato Luigi Famiglietti, il viceministro dell'economia Enrico Zanetti ha divulgato l'elenco, comune per comune, euro per euro, dei 631 municipi che hanno in cassa soldi stanziati per il terremoto, e che non li spendono, li tengono parcheggiati. Ci sono comuni che hanno in tasca poche migliaia di euro. Ma altri hanno due, tre, quattro, addirittura otto milioni. Come è possibile? Semplice: per la grande parte, i tesoretti più consistenti stanno nelle casse di comuni che del terremoto del 1980 avevano sentito a stento l'eco, che hanno partecipato all'assalto ai fondi, e che adesso - neanche con tutta la buona volontà - riescono a indicare opere che si potrebbero realizzare con la motivazione del terremoto. I soldi non sono finiti, sono finiti gli alibi, le scuse. Come dice Rodolfo Salzarulo, sindaco di Lioni, dove il sisma imperversò davvero: «Spendere ventimila miliardi di lire per fare le case popolari a Napoli era sacrosanto. Ma cosa c'entrava il terremoto?». Dei trenta miliardi di euro spesi in nome del sisma, quanti sono serviti davvero alla ricostruzione? «Non più di dieci». E così ecco i soldi che fanno muffa nelle casse di Sant'Antonio Abate, di Portici, di Castellammare, inclusi da una legge scellerata e da un patto trasversale nell'elenco dei comuni vittime di un terremoto che li aveva solo sfiorati. E però per capire davvero cosa sia accaduto bisogna frugare l'elenco, e vedere che vi compaiono anche paesi che purtroppo stavano davvero nel cratere del terremoto, e che ne uscirono devastati. Alcuni di loro hanno speso fino all'ultimo euro. Ma altri hanno in cassa milioni che non toccano da anni. «La verità è che la ricostruzione è finita», dice con un po' di sollievo Rosanna Repole, che è tornata a fare il sindaco di Sant'Angelo dei Lombardi, il comune simbolo del terremoto: la prima volta venne eletta il 24 novembre 1980 e giurò sotto una tenda della Protezione civile, perché il sindaco era sotto le macerie, insieme al capitano dei carabinieri, al parroco, e ad altre 365 persone. «Le emergenze vere erano risolte già dopo dieci, quindici anni. Poi si è fatto il resto». E i soldi ancora in cassa? Lo staff della Repole spiega che sono soldi già assegnati, ma che aspettano per essere erogati qua un certificato di collaudo, là la fine di una lite tra eredi, qui la firma di un curatore fallimentare. Ma c'è, tra i sindaci del cratere, anche chi ammette di non sapere più come spendere i quattrini: come Pietro Mariani, primo cittadino di Morra de Sanctis, che allarga le braccia, «mi rendo conto che se non spendo i soldi c'è il rischio che il governo se li riprenda, ma cosa posso farci? Potrei distribuire il contante tra i cittadini, ma dubito che la Corte dei conti sarebbe d'accordo». E allora? «In lista d'attesa nelle richieste ci sono in pratica solo cittadini che vogliono la rimessa per l'auto. Ma dove le facciamo tutte queste rimesse? Vuol dire consumare altro territorio. E non posso certo costruire un parcheggio multipiano». Così riemerge il tema di fondo, quello della ricostruzione eccessiva, smisurata, insensata che si coglie ad occhio nudo viaggiando in queste terre, dove i crinali degli uliveti sono oggi costellati da schiere infinite di pannelli solari e pale eoliche. A Nusco, il paese vecchio, appollaiato in cima al cocuzzolo, è di una bellezza da presepe. Ma è un paese fantasma, dove ogni ciottolo trasuda fondi pubblici, e dove alle otto di sera - quando in ogni casa italiana si accendono le luci della cena - dietro le persiane si scorge solo il buio. Via Stigmatine, via Moscatelli, via Forno Vecchio: una preziosa ghost town seicentesca, resa ancora più spettrale dalle luminarie del Natale ancora accese. Una ricostruzione accurata, rispettosa, inquietante. I passi echeggiano nel silenzio più assoluto. E non è la classica impressione del cronista superficiale. Nel suo ultimo rapporto, l'Osservatorio sul doposisma - un gruppo indipendente di studiosi interdisciplinari - scriveva che «migliaia di miliardi di lire sono stati spesi per costruire vani oggi solo per un terzo abitati», e parlava esplicitamente di «ricostruzione urbanistica sovradimensionata dei paesi terremotati». Si è ricostruito troppo. Vale per le case, vale per il tessuto produttivo, che qui quasi non esisteva e si è voluto creare da zero, distribuendo aiuti a chiunque venisse da fuori a investire e a portare mentalità imprenditoriale. Delle venti aree industriali programmate a tavolino dai politici, solo cinque hanno retto davvero la prova degli anni. È rimasta la Ferrero, anche perché qui è il regno delle nocciole che servono per la Nutella; è rimasta la Zuegg, perché siamo in zona di fichi e (prima che arrivasse il flagello del cinipide calligeno) di castagne; fiorisce e dà lavoro la Ema, che è di proprietà della Rolls Royce e fa componenti per gli aerei; e poco altro. Il risultato è che i fondovalle e le fiancate sono costellati dai capannoni vuoti di aziende nate morte. È come se il sogno della ricostruzione fosse stato ucciso dalla sua stessa ipertrofia. Il sogno lascia paesi rifatti per abitanti che non esistono più, per emigrati rimasti in Germania, per giovani che se ne sono andati: come Salvitelle, come Nusco, dove il vecchio sindaco Ciriaco De Mita attraversa la piazza del Municipio brontolando, «un altro articolo sulla ricostruzione? E come vi viene in mente?». Il sogno lascia testimonianze desolate. Ai piedi di Lioni, la nuova stazione per le autocorriere, enorme, mai finita, già cade a pezzi.

Doveva servire la linea ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant'Antonio che scorre lì accanto, e che poteva essere l'arteria della nuova Irpinia. La ferrovia è stata chiusa dieci anni fa, sui binari ora cresce la gramigna. Ma i lavori per l'autostazione sono andati avanti, come se non fosse successo niente, come se il futuro dovesse davvero arrivare.

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