«Voglio congratularmi con il mio amico Philip Hammond per aver detto che non sarò mai premier. È la prima previsione del Tesoro che suoni minimamente veritiera». Tante battute, molte risate e «sangue» quanto basta. Boris Johnson non delude il popolo Conservatore venuto a sentire il suo intervento a margine del Congresso dei Tory a Birmingham. Ma non è lui l'unica spina nel fianco di Theresa May, alla vigilia del difficile discorso che la premier terrà oggi di fronte al partito, spaccato sulla Brexit, come i due rivali interni. Così, mentre Johnson definisce «un oltraggio» il piano Chequers concordato dalla premier con il suo governo (già considerato «morto» pure dai vertici di Bruxelles), gli unionisti dell'Ulster (Dup) - su cui l'esecutivo di Londra si regge per un soffio in Parlamento - fanno sapere chiaramente, per bocca della loro leader Arlene Foster, che lavorerebbero volentieri con Johnson, di cui apprezzano la «visione positiva» della Brexit, ma soprattutto non accetteranno mai una frontiera doganale e controlli nel mare d'Irlanda. Un altro pericoloso avvicinamento all'ipotesi no-deal, cioè all'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea senza accordo. Una risposta secca alla rivelazione di ieri del Times, secondo cui, per sbloccare l'impasse nei negoziati con Bruxelles, May è pronta a proporre alla Ue il proprio allineamento ai regolamenti doganali europei sui beni alla fine del periodo di transizione nel dicembre 2020. Se Bruxelles accettasse l'offerta, i beni in entrata in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna dovrebbero rispettare gli standard europei e subire controlli nel mare d'Irlanda. Indiscrezione che ha spinto il Democratic Unionist Party ad alzare un muro, sulla base del solito principio: il nostro destino non si separa da quello del Paese, dobbiamo avere regole identiche.
Tutto ancora in alto mare, insomma. Non è un caso che per assistere al discorso dell'ex ministro degli Esteri, il popolo conservatore si sia allineato in code lunghe diverse ore. Johnson non delude, specie quando lancia il suo appello, «Chuck Chequers», cestiniamo i Chequers, buttiamo via il piano, dice dell'accordo con cui il governo di Londra spera che il Regno Unito possa restare allineato ai regolamenti del mercato comune nel settore dei beni, compresi i prodotti agricoli, adottando invece disposizioni più flessibili sui servizi. BoJo rincara la dose: «È pericoloso e instabile, politicamente ed economicamente umiliante per una democrazia da 2mila miliardi di sterline, la quinta del mondo». E aggiunge: «Questa non è democrazia. Non è quello per cui abbiamo votato». Johnson arriva al dunque dopo un lungo intervento in cui attacca il leader dell'opposizione Jeremy Corbyn, «che prende soldi dalla tv iraniana», «a stento è riuscito a condannare i russi per le atrocità di Salisbury», «che giudica in modo indulgente sull'antisemitismo» e «si impegna in modo opportunistico per un secondo referemdum». Sembra una chiara candidatura alla successione.
Ma sul finale, dopo aver definito «pura fantasia» pensare che i termini della Brexit possano essere migliorati nel tempo, dopo aver sottolineato che se si fallisce «a beneficiarne sarebbero gli estremisti dell'Ukip e i Corbyniani», BoJo sembra salvare Lady May, gettando alle ortiche il suo piano ma apparentemente non la sua leadership: «Fate pressione sul governo perché porti a termine quello per cui la gente ha votato, sostenete Theresa May nel migliore dei modi, supportando il suo piano originario». Oppure hard Brexit. Johnson possibile successore. Ma i fedelissimi di May, che si dice «irritata», fanno quadrato attorno alla premier: «Serve un leader serio».
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