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L'amaro brindisi del procuratore Greco. Lascia l'ultimo pm del pool di Tangentopoli

Il "capo" di Milano in pensione da indagato per il caso dei verbali di Amara

L'amaro brindisi del procuratore Greco. Lascia l'ultimo pm del pool di Tangentopoli

«Quarantatre anni, nove mesi, dieci giorni, nove ore e dieci minuti»: Elio Ramondini, che era insieme a Paolo Ielo uno dei ragazzi di bottega del pool Mani Pulite e oggi ha i capelli bianchi, calcola così il tempo trascorso da quando Francesco Greco ha indossato per la prima volta la toga di magistrato, nella grande aula del Palazzo di giustizia di Milano dove ieri si celebra l'addio di Greco, che domenica va in pensione.

Era l'ultimo ancora in pista di quella testuggine romana che era il pool, tutti diversi, ma inattaccabili sotto lo scudo compatto. Da lunedì, nel palazzaccio milanese di quella stagione gloriosa e terribile non resta neppure un protagonista. Greco se ne va dopo cinque anni alla guida della Procura: per celebrare la sua investitura, nel 2016, venne in tribunale Francesco Saverio Borrelli, che non nascose la commozione per l'approdo al posto che era stato suo, di uno dei «pulcini» del pool.

Della squadra che diede l'attacco a Tangentopoli, Greco - che veniva dall'indagine sui fondi neri Eni - era la mente economica, sponda ideale per l'irruenza di Di Pietro, le sottigliezze di Davigo, le analisi di Gherardo Colombo. Ieri ci sono sia Di Pietro che Colombo. Non c'è Davigo, e Di Pietro, nel suo intervento, non manca di notarlo: «Vorrei tanto che ci fossimo qui tutti, quelli di quei giorni. Perché abbiamo fatto un pezzo di vita insieme, e abbiamo fatto il nostro dovere con coscienza per assicurare alla giustizia dei delinquenti».

Ma Davigo non c'è, non può esserci, perché l'addio di Greco arriva nel pieno della tempesta che ha investito la Procura, e di cui Davigo - facendosi consegnare dei verbali segreti dal pm ribelle Paolo Storari - è stato uno dei motori. È finita che ora sono tutti sotto inchiesta, e a Greco toccherà andare in pensione da indagato perché il suo proscioglimento, già chiesto dalla Procura di Brescia, non è ancora arrivato. E l'ombra lunga di quella brutta storia si allunga inevitabilmente anche sulla cerimonia di ieri, si traduce negli sguardi per capire chi c'è e chi manca. C'è lo stato maggiore, ci sono (quasi tutti) i vice. Ma scarseggiano la base, i peones della Procura che nello scontro interno si sono schierati con Storari e contro il capo.

Greco, quando tocca a lui parlare, all'enorme pasticcio accenna appena: «Non è la prima né l'ultima tempesta che la Procura di Milano dovrà affrontare», dice. E non fa cenno al tema della sua successione, della gara ancora incerta che potrebbe per la prima volta portare alla guida della Procura ambrosiana un magistrato cresciuto lontano da questo palazzo, dalle sue tradizioni, dai suoi cerchi di amicizie e di ideologie. Di tutto questo Greco non parla. Ma nei giorni scorsi, chiacchierando con un vecchio amico, aveva mostrato tutte le sue preoccupazioni: «Chi oggi - aveva detto - invoca per questa Procura un papa straniero temo che in realtà abbia in mente solo la normalizzazione della Procura di Milano, ridurla a occuparsi di inchieste da cronaca locale». Perché, piaccia o non piaccia, questa è la Procura che negli ultimi trent'anni ha battuto per prima nuove strade, ha cercato orizzonti nuovi nei nuovi crimini dell'economia digitale, dello sfruttamento postindustriale, della corruzione internazionale.

Già, la corruzione internazionale: già fiore all'occhiello e ora croce della Procura milanese, con il naufragio delle inchieste contro Eni per le tangenti in Africa. Tutti assolti. «Ma al popolo nigeriano - diceva Greco l'altro giorno - in cambio di quei giacimenti enormi devo ancora capire cosa sia stato dato».

(Oltre a Davigo, ieri mancava anche Ilda Boccassini: ma dopo quello che ha scritto nel suo libro forse è stato meglio così).

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