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L'Argentina in default tra sprechi miliardari e burocrazia corrotta

Fernandez dichiara l'emergenza. A pagare saranno i soliti noti: chi lavora e chi produce

L'Argentina in default tra sprechi miliardari e burocrazia corrotta

San Paolo - «L'Argentina è in default virtuale». Parole importanti quelle pronunciate dal presidente Alberto Fernández intervistato domenica scorsa nel programma La Cornice di America Tv da Luis Majul e che hanno presto fatto il giro del mondo, anche se non sono una sorpresa. Già perché appena due giorni prima le agenzie Standard & Poor's e Fitch avevano già abbassato al livello di «default selettivo» il rating del Paese. Default significa incapacità di onorare i debiti e quando si chiedono soldi ad altri tre sono le promesse da rispettare per evitare il fallimento: restituire a scadenza il capitale preso in prestito, pagare gli interessi e rispettare le scadenze. Bene, settimana scorsa Buenos Aires ha spostato ad agosto 2020 obbligazioni in scadenza per un totale di 9 miliardi di dollari. Corretto dunque l'aggettivo «selettivo» di Fitch e Standards&Poor riferito al default mentre è invece un eufemismo la definizione di «virtuale» del presidente.

«Questo è ciò che abbiamo ereditato. Non possiamo pagare le obbligazioni in scadenza. Nel 2001 (quando ci fu l'ultimo default argentino, da 100 miliardi di dollari, ndr) avevamo una forte disoccupazione come oggi. Ciò che non avevamo era l'inflazione di adesso». Su questo Alberto ha ragione. Il suo predecessore Mauricio Macri invece di ridurre l'abnorme apparato burocratico statale come aveva promesso, pur di continuare a foraggiarlo è stato costretto a chiedere al Fondo Monetario (Fmi) un prestito record, da 57 miliardi di dollari. Inoltre, con l'emissione di massa monetaria in pesos, Macri non è riuscito a contrastare l'inflazione ereditata da Cristina Kirchner, passata dal 40% del 2015 al 55% di oggi, la più alta delle Americhe dopo il Venezuela.

Ciò che però Alberto non dice perché va contro la narrativa della sua vicepresidente Cristina Kirchner, è che il piano di emergenza economica approvato dal Parlamento lo scorso fine settimana, tutto si propone meno che di risanare il vero male argentino, ovvero il corrotto ed elefantiaco settore statale i cui sprechi, secondo un recente studio del Bid (la Banca Interamericana di Sviluppo) si portano via il l'7,4% del Pil, un'enormità. E, paradossalmente, se da un lato il kirchnerismo/peronismo si riempie la bocca parlando di «battaglia contro la fame» e «lotta contro la povertà», per ora l'unico settore protetto dal «piano di emergenza» è quello finanziario, il che spiega perché sia Fmi che Wall Street abbiano accolto bene le prime misure economiche di Fernández.

In appena due settimane Alberto ha infatti raddoppiato le tasse al settore agricolo, le cui esportazioni adesso dovranno pagare il 33%, unico Paese al mondo che invece di aiutare chi esporta lo massacra di tributi. Poi ha introdotto una tassa del 30% sulle spese in dollari, un ulteriore fardello per chi esporta. Infine ha congelato le pensioni di chi guadagna 20mila pesos al mese (poco più di 200 euro) che, con un'inflazione al 55%, è pura follia, oltre ad avere cancellato un decreto che impediva allo Stato di fare contratti ai familiari di dipendenti pubblici.

Tralasciando le riforme a servizi segreti, lotta alla corruzione e giustizia-che in Argentina vanno sempre in scia al potere di turno-la misura più clamorosa, tuttavia, è che nel piano economico di Fernández, cui il Parlamento ha dato superpoteri per 6 mesi, è stata eliminata l'imposta sul lucro finanziario.

Per questo Fmi e Wall Street sono soddisfatti di Alberto che (per ora) può parlare di «default virtuale», mentre a pagare sono i soliti noti, ovvero chi lavora e produce.

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