L'assurdo caso del preside detenuto per il terremoto

Mobilitazioni e polemiche per la reclusione del dirigente scolastico friulano condannato a 4 anni per il crollo del convitto dell'Aquila che causò tre morti

Convitto nazionale dell'Aquila
Convitto nazionale dell'Aquila

Negli occhi le immagini della distruzione e della morte dei suoi tre studenti rimasti intrappolati sotto le macerie del Convitto nazionale dell'Aquila, di cui allora era preside, scorrono indelebili come se non fossero trascorsi sei anni e mezzo dal sisma. Ma l'accusa, omicidio colposo plurimo e lesioni personali, con cui la Cassazione il 23 ottobre scorso - nell'ambito della maxi inchiesta sui crolli - lo ha condannato a quattro anni reclusione e cinque di interdizione dai pubblici uffici, per Livio Bearzi è un dolore insuperabile. Cinquantotto anni, friulano, dirigente scolastico all'Aquila solo da pochi mesi quando la terra ha tremato nella notte del 6 aprile del 2009. Dal 10 novembre sta scontando la sua pena in una cella del carcere di Udine, perché i giudici in terzo grado lo hanno ritenuto colpevole di «negligenza e condotte omissive», nonché di «totale inerzia, a fronte di una situazione di evidente rischio per le condizioni in cui versava la palazzina, in presenza dello stillicidio di scosse».

Secondo i magistrati - che hanno inflitto 2 anni e 6 mesi anche a Vincenzo Mazzotta, già dirigente della Provincia dell'Aquila - la legge è chiara: le responsabilità dello stato del vecchio immobile erano in capo al preside. Così in appello hanno confermato il verdetto già emesso in primo grado, contestando a Bearzi i mancati restauri, l'assenza di un piano di sicurezza e la mancata evacuazione. Immediata la levata di scudi contro «l'assurdità» della norma, ma la sentenza, fa notare il legale difensore Paolo Enrico Guidobaldi, non fa che anticipare l'orientamento «della legge 107 di quest'anno, quella sulla cosiddetta Buona scuola, che individua nel dirigente scolastico il responsabile della sicurezza». E se è vero, aggiunge, che «a tre famiglie è stata inflitta la sofferenza più profonda, quella di perdere un figlio, anche la situazione di Bearzi è dolorosa. Anche lui è una vittima del terremoto». Dal punto di vista umano, e ora anche giudiziario.

Dopo essere sopravvissuto al sisma del Friuli nel 76, quello dell'Aquila lo ha portato dietro le sbarre. Persona per bene, Bearzi, professionista stimato e benvoluto dalla comunità scolastica che in Friuli Venezia Giulia si è mobilitata con una petizione per chiedere la grazia: «Un uomo giusto - afferma il direttore dell'ufficio scolastico regionale, Pietro Biasiol - che merita di essere restituito ai suoi cari». Adesso si muove anche la politica: ieri la governatrice Debora Serracchiani ha inviato una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché «la pena sia condonata e sia annullata l'interdizione ai pubblici uffici, con l'auspicio di una celere revisione della normativa vigente.

Bearzi è il primo preside a finire in carcere per gli effetti del Testo unico 81/2008 - scrive la presidente - questa sentenza ha nuovamente fatto rilevare le problematiche di una normativa che grava sull'operare quotidiano dei dirigenti scolastici obbligati a segnalare rischi e pericolosità ma nei fatti non messi nelle reali condizioni di poter risolvere le mancanze strutturali». «In tanti mi chiedono è il commento di una collaboratrice di Bearzi perché lui sia in cella e Schettino no. E io non so cosa rispondere».

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