Premessa: su queste vicende bisogna essere prudenti, parafrasando San Tommaso «se non vedo se non tocco con la mano non credo». Detto questo la cronaca va registrata, specie se riporta rumors di prima mano. Ebbene dopo il «caso Dall'Osso» l'emigrazione dai 5stelle verso l'area moderata, in primis Forza Italia, va avanti. Il fatto nuovo è che qualcuno azzarda numeri. Secondo uno degli esponenti del primo cerchio berlusconiano al Senato sei senatori grillini potrebbero cambiare casacca nelle prossime settimane o, al massimo, a fine gennaio (mettendo in ambasce il governo). Di questi tre già sarebbero acquisiti, mentre con altri tre c'è un'interlocuzione ravvicinata. Alla Camera, invece, gli interessati a fare i bagagli e a lasciare Beppe Grillo sarebbero quattro. Come si è detto in questi frangenti bisogna andare con i piedi di piombo, ma i segnali si stanno moltiplicando. Silvio Berlusconi non lo nasconde a chi parla con lui: «Ci sono buone prospettive che questo esodo si verifichi e che questo governo cada». E il moltiplicarsi dei voti di fiducia (oggi ce ne saranno due, uno alla Camera sul dl fiscale e l'altro al Senato sull'anti-corruzione) dimostrano il nervosismo che c'è nel governo. «Berlusconi osserva Adriano Galliani, uno dei fedelissimi non ha mai messo la fiducia su un provvedimento sulla giustizia. È un segno di debolezza». Mentre il capogruppo dei senatori Pd, Andrea Marcucci, nel ruolo di spettatore, è ancora più esplicito. «Non solo lo penso dice ma ne ho cognizione: ci sono almeno 15-20 senatori grillini che stanno valutando il trasloco. La destra del movimento sente il richiamo della foresta. In più sanno benissimo che la penale di 100mila euro è una menata finché in Costituzione non c'è il vincolo di mandato».
Al di là delle mille valutazioni che si potrebbero fare sul fenomeno, il dato importante è che segnala un malessere profondo. Qui non si tratta di trattative «ad personam», o menate simili, come scrive il Suslov dei 5stelle Marco Travaglio, ma delle conseguenze dello stato di difficoltà in cui versano i grillini. Il movimento ha contratto un virus estremamente pericoloso, il mal di governo. Un «virus» che può modificarlo geneticamente, o, peggio, ucciderlo, il che dimostra che non sempre il vecchio motto di Andreotti, «il potere logora chi non ce l'ha», ci azzecchi. La caduta perpendicolare nei sondaggi ne è la riprova. Secondo la «maga», Alessandra Ghisleri, questa settimana i grillini hanno toccato lo scalino del 24%, quasi dieci punti in meno rispetto alle politiche. Ma ciò che deve più preoccupare Di Maio e i suoi colonnelli, sono i sondaggi tematici: per il 70% degli italiani il Paese non è pronto all'introduzione del reddito di cittadinanza; il 60% è addirittura contrario; al 53% non piace tutta la manovra. Se a questo si aggiunge che, secondo Eurobarometro, quest'anno gli italiani favorevoli alla Ue sono il 64%, rispetto al 49% dello scorso anno, significa che molti, spaventati da sei mesi di governo gialloverde, vedono nell'Europa si fa per dire «un bene rifugio».
Tant'è che in queste condizioni il premier Giuseppe Conte ha avuto (il condizionale è d'obbligo) un mezzo mandato a chiudere «l'armistizio» con la Ue su un rapporto deficit/pil all'incirca del 2%. Quattro decimali in meno rispetto al fatidico 2,4% che aveva scatenato lo spread e stressato i mercati, che ridurranno le risorse per il reddito di cittadinanza. Una ritirata dovuta alla debolezza grillina? Anche, per non dire soprattutto. Tant'è che martedì all'esperta di economia di casa a Montecitorio che gli chiedeva conto della sua mestizia, il ministro Giovanni Tria, da sempre inviso ai 5stelle, ha risposto con l'ennesimo sms ma questa volta baldanzoso: «Non sono mesto. Anzi! Non ve ne state accorgendo, ma sto vincendo io». A cui ha corrisposto ieri un Paolo Savona, ex ministro della guerra con la Ue, che, fatti tacere i tamburi di guerra, è diventato estremamente prudente. «Vedremo domani ha spiegato -, la situazione è delicata. Non so quanto peserà e come la vicenda francese. Siamo agli sgoccioli e dobbiamo affidarci alle capacità di negoziazione di Conte».
Già, nelle difficoltà, il governo deve affidarsi alle doti di Conte, al nuovo Badoglio e alla sua capacità di chiudere un buon «armistizio» con Bruxelles. E questo è sicuramente il segnale più evidente della crisi grillina. Una crisi a cui Di Maio tenta di porre riparo come può. Tenta di calmare imprenditori e sindacati, al costo di dire tutto e il suo contrario. Sembra recitare la celebre gag di Petrolini nei panni di Nerone: «grazie» dice l'imperatore al popolo, che risponde «bravo»; in un escalation che si trasforma in un «bravo» di Nerone al popolo, che risponde «grazie». E cerca di ricompattare il movimento, individuando nel partner di governo che sale nei sondaggi (la Lega è al 33-34%), un temibile avversario se non un nemico. La polemica contro Salvini per aver definito gli hezbollah «terroristi»; il rilancio della proposta che penalizza le pensioni d'oro da sempre criticata dalla Lega; e, soprattutto, la presa di posizione severa nei confronti del Carroccio sull'inchiesta sui 49 milioni di euro di finanziamento pubblico, sono tutti episodi di questa offensiva che punta a ricompattare il movimento, ma che rischia di mettere in difficoltà il governo. Lunedì scorso la diffidenza tra i due vicepremier ha superato il livello di guardia. «I due non si parlano!», ha confidato la sera al telefono il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, a un amico milanese: «Qualunque cosa chiedi a Di Maio, ti risponde no». Atteggiamento che corrisponde ad una regia studiata, ma che può essere foriero anche di grossi guai. «Capisco la tensione dei grillini si infervora il sottosegretario leghista al Mef, Massimo Bitonci - ma la polemica sui 49 milioni della Lega è un imbarbarimento. Una cosa che non si fa. È una polemica che gli si potrebbe addirittura ritorcere contro: se si comincia ad indagare sulle fondazioni dove ci sono persone fisiche, o sulla distrazione di immobili, voglio vedere come finisce per loro! Se stanno andando in crisi? Se è così, francamente, meglio per noi e per tutti».
Toni duri, minacce e controminacce, in un'atmosfera pesante. Succede con i colonnelli grillini che non hanno la perizia necessaria per accelerare o frenare sui pedali della polemica, senza combinare guai. Ecco perché anche se la tabella di marcia di Salvini punta ancora a salvaguardare l'attuale governo fino alle elezioni europee, la crisi dei 5stelle potrebbe determinare imprevisti o colpi di scena. La situazione potrebbe precipitare e avere anche sviluppi imprevedibili.
«Di Maio congetturava la settimana scorsa sui divani di Montecitorio Dario Galli, viceministro al ministero dello sviluppo rischia il destino di Alfano. Diventare un diversamente grillino per garantire la governabilità».
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