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L'ira contro i suoi dietro l'addio. Dopo Zingaretti è pronta la Pinotti

Il segretario conferma le dimissioni: è caos dem "Ce l'ha con Bonaccini e i franceschiniani che l'hanno lasciato solo". J'accuse: "Ha avvisato prima i 5 Stelle di noi...". Verso una reggenza

L'ira contro i suoi dietro l'addio. Dopo Zingaretti è pronta la Pinotti

«Ripensamento? Non c'è e non ci sarà». Nicola Zingaretti, formalizzando le proprie dimissioni con lettera alla presidenza del suo partito, ieri ha voluto fugare ogni dubbio: se ne vuole davvero andare dal Nazareno, non cerca la riconferma per acclamazione all'Assemblea nazionale del 13 marzo prossimo. Aprendo così la strada alla successione: segretario di transizione (come la franceschiniana Roberta Pinotti) o politico (come Andrea Orlando)?

Man mano, tutti i dirigenti dem che erano stati presi completamente alla sprovvista dalla mossa del segretario, e che fino all'ultimo non ci avevano creduto, pensando chi a «una crisi di nervi passeggera» e chi a «un tentativo di evitare il processo alla sua linea spostando il dibattito su Zingaretti sì e Zingaretti no», si sono convinti: «Questo se ne va davvero». E se ne va lanciando un anatema contro i compagni di partito che «parlano solo di poltrone» e che imputano al segretario sconfitte condivise. «Ce l'ha con Bonaccini e i sindaci che lavoravano alla sua sostituzione contestandogli l'appiattimento su Conte e grillini, ma innanzitutto ce l'ha con i suoi», spiegano tra i dem. Ossia con chi non ha mosso un dito per sostenerlo, come Dario Franceschini, o con chi ha contribuito ad alzare la tensione interna mandando all'aria i suoi tentativi di mediazione con la minoranza, come Bettini e Orlando che si sono prodigati in interviste insultanti verso i «rigurgiti renziani» di orlandiana memoria. «A fargli saltare i nervi - spiega un esponente di Base riformista - sono state le parole di franceschiniani come Zanda, orlandiani come Misiani, mattarelliani come Castagnetti che spingevano per un congresso vero».

«Mi sono dimesso per spingere il gruppo dirigente a un confronto più schietto, plurale ma senza ipocrisie, che ci permetta di affrontare le scelte che si dovranno fare», scrive Zingaretti. E prova anche a mettere una pezza a quella scelta che ha lasciato di stucco tutti, nel Pd, per la sua stravaganza: giovedì ha annunciato le sue dimissioni, via telefonata, a Giuseppe Conte. Non ai suoi compagni di partito, non al premier in carica Mario Draghi del cui governo è azionista, ma all'ex premier oggi in pista per sostituire Vito Crimi alla guida dei Cinque Stelle. «Una scelta allucinante, che ricorda quegli adepti americani della setta Qanon che ancora pensano che il vero presidente sia Trump», sbotta un parlamentare Pd. «Il governo Draghi è forte e andrà avanti», scrive ora il segretario uscente, come per tentare di fugare il dubbio che il suo sia stato un gesto polemico contro la nascita di un governo che ha subito da Matteo Renzi e da Sergio Mattarella.

Molti però, nel Pd, sospettano che l'ormai ex segretario, da libero battitore, voglia incarnare in futuro un'anima frondista rispetto al nuovo esecutivo, pronta a denunciare gli «spostamenti a destra» dell'asse governativo. Ma questo è un problema di domani: oggi c'è da capire che fare, e come porre rimedio a una rottura che ha gettato nel caos il partito, che ora rischia grosso alle prossime amministrative. L'Assemblea nazionale, salvo slittamenti, resta fissata per il 13 marzo. E in quella sede bisognerà avere una soluzione pronta, per non lasciare acefalo il Pd. Nelle frenetiche consultazioni interne delle e tra le correnti si cerca un punto di caduta. Lo statuto parla chiaro, in caso di dimissioni irrevocabili bisogna eleggere un nuovo segretario. Che può essere di transizione, avviando contemporaneamente il congresso (che si terrebbe tra fine 2021 e inizio 2022) o a tempo pieno, e quindi destinato a restare in sella fino al 2023, quando si eleggerà il successore di Sergio Mattarella.

La prima ipotesi è quella che metterebbe tutti d'accordo: il nome verrebbe scelto insieme ed eletto all'unanimità. La ex ministra della Difesa Pinotti potrebbe essere la carta migliore: donna, franceschiniana (ossia della corrente ago della bilancia), con uno standing «governativo» indiscusso. Nel frattempo si organizzerebbe per fine anno un congresso che potrebbe vedere contrapposti il riformista Bonaccini e il sinistrorso Orlando.

Ma quest'ultimo scalpita per provarci subito, mantenendo la propria postazione di governo e contando sulla maggioranza zingarettiana.

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