L'Isis supera il "punto di non ritorno"

Il Califfato prosegue la conquista. Ormai è troppo vasto per poter essere sconfitto solo con raid aerei

L'Isis supera il "punto di non ritorno"

«No, non penso che stiamo perdendo». A dar retta a Barack Obama, intervistato da The Atlantic , la guerra allo Stato Islamico va che è un piacere. Le debacle di Ramadi e di Palmira, con il loro corollario di stragi e teste mozzate, sono semplici contrattempi «tattici» nell'ambito - aggiungono i portavoce - di una strategia di «degrado e distruzione» dell'Isis. Sarà, ma a dare un occhiata al quadro complessivo - dopo otto mesi di raid aerei con 2200 incursioni in Iraq e 1400 in Siria - la situazione appare ben più grave. Sul fronte siriano lo Stato Islamico si è pappato metà dei territori. Su quello iracheno si è allargato dalla provincia di Mosul a quella di Anbar e bussa alle porte di Bagdad.

Ma per comprendere appieno la strategia del Califfato vanno considerate le concomitanze temporali, le simmetrie geografiche e le conseguenze delle sue ultime mosse. L'elemento più evidente è la concomitanza temporale. Le conquiste di Ramadi in Iraq e di Palmira in Siria vengono messe a segno, in un quadro di perfetta simultaneità tattico-strategica, tra domenica e mercoledì notte. E quell'avanzata prende corpo su un asse geografico ben preciso. Ramadi e Palmira sono due città perfettamente simmetriche anche se situate «teoricamente» in due Stati diversi. «Teoricamente» perché in verità su quell'asse geografico non esistono più confini. Giovedì sera le truppe siriane hanno abbandonato il valico siriano-iracheno di Al Tan, 240 chilometri ad est di Palmira. Le truppe irachene posizionate dall'altra parte se n'erano andate dopo la cattura di Ramadi. La provincia irachena di Anbar e i territori desertici che da est di Palmira portano alla frontiera sono dunque un'unica entità sotto il controllo dello Stato Islamico.

Ancor più serie della situazione attuale sono le ulteriori conseguenze strategiche. Ramadi è da sempre la «porta di Bagdad». Per bussare alle porte della capitale le milizie dello Stato Islamico devono solo spingersi un centinaio di chilometri più a est. Sul fronte siriano la prospettiva non è più allegra. A dividere Palmira e Homs, la città «culla della rivoluzione», tornata sotto controllo governativo solo un anno fa, vi sono 154 chilometri di deserto impossibili da difendere, ma facilissimi da attraversare per le colonne di fuoristrada dell'Isis.

Proprio in quelle zone è stato rapito ieri il sacerdote Jacques Murad. Il religioso è stato prelevato dal Monastero di Mar Elian dove aveva lavorato per anni al fianco del gesuita italiano Paolo Dell'Oglio sequestrato dall'Isis nel luglio del 2013. Il Califfato dopo essersi divorato mezza Siria sembra dunque pronto a minacciare una capitale distante solo 160 chilometri da Homs. L'aspetto più grave di tutto questo sono però le dimensioni assunte dallo Stato Islamico. La sua estensione territoriale e le capacità dei suoi combattenti rendono ormai obsoleta la strategia di guerra aerea concepita dalla Casa Bianca. Grazie alle esitazioni di Obama il Califfato è oggi qualcosa di too big to fail , di «troppo grande» per venir abbattuto solo a colpi di bombe ed incursioni aeree. Per sconfiggerlo sarà necessaria un'offensiva di terra con l'impiego di decine di migliaia di soldati. Un'offensiva simile a quella messa in campo nel 2006, quando per riconquistare le provincie irachene in mano agli insorti jihadisti e sciiti gli Stati Uniti aggiunsero 20mila soldati ai 143mila già presenti al tempo in Iraq affidandosi alle capacità strategiche del generale David Petraeus.

Per sconfiggere il Califfato l'America rischia insomma di dover fare un salto all'indietro di nove anni. E scoprire che le detestate guerre di George W. Bush non erano peggiori di quelle di Obama. Anche perché con lui almeno si vinceva.

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