Cronache

"Lui mi ha chiesto la mano e io gli ho regalato un rene"

Irene Vella è la prima donna che ha partorito dopo l'espianto. "Mio marito non lo voleva: serve più amore a ricevere che a dare. Aspettare la morte di un altro sarebbe stato brutto"

Irene Vella con il marito Luigi Pagana e i figli, Donatella e Gabriele
Irene Vella con il marito Luigi Pagana e i figli, Donatella e Gabriele

La giornalista Irene Vella è in assoluto la collega più generosa che io abbia mai conosciuto. Nel lavoro la sua prodigalità si manifestò il giorno in cui, avventizia alla Voce di Romagna, accettò di farsi pagare 10 euro lordi (diconsi dieci) un'esclusiva mondiale: l'intervista con la madre di Marco Pantani, il campione di ciclismo stroncato da un'overdose. Ma non un'intervista qualsiasi: «La signora Tonina me la concesse nella casa del figlio morto. Fui l'unica cronista a esservi ammessa. Dopo un po', raccontandole di un mio cugino che aveva fatto la stessa fine del suo Marco, piangevamo entrambe». In quell'occasione, fotografò anche le tele che il Pirata dipingeva sniffando cocaina, i geroglifici che tracciava sui muri quando era sotto l'effetto degli allucinogeni, il bagno che s'era fatto pitturare di giallo dopo aver vinto il Tour de France. «Avrei potuto farci tanti soldi, ma non me la sentii di vendere quelle immagini ai giornali». Eppure il campionario delle testate cui offrirle sarebbe stato ampio, considerato che fino a oggi ha scritto per Eva Tremila, Novella 2000, Visto, Vero, Tu Style, Oggi, Gente, Vanity Fair e Donna Moderna.

Nella vita, cominciata il 30 maggio 1970 a Massa Marittima, Irene Vella è riuscita a superare sé stessa in altruismo donando un rene al marito Luigi Pagana, coetaneo di Montefiascone, aggredito dalla malattia di Berger, e poi, ad appena tre mesi dall'intervento chirurgico incrociato, rimanendo incinta, nonostante il professor Ugo Boggi, docente di chirurgia generale all'Università di Pisa, le avesse caldamente raccomandato di soprassedere, almeno per qualche tempo. Ora, specchiandosi nel sorriso del suo Gabriele, venuto ad aggiungersi alla primogenita Donatella, potrebbe vantarsi d'essere stata la prima italiana a partorire dopo aver subìto un espianto a fin di bene, ma non lo fa, perché dice che si è limitata ad assecondare ciò che il destino aveva deciso per lei nel giorno del battesimo, «il caso non esiste, mi chiamo I-rene, no?», scandisce sorridendo. Merito di sua madre. «Quando avevo 10 anni, mi regalò un quadretto di tricot con scritto: “Sarai regina e vincerai, tutte le cose che vorrai diventeranno realtà”. Il fatto è che io ci ho creduto». Sarai regina e vincerai è il titolo del libro che uscirà da Piemme nel 2016.

Non v'è dubbio che le cose desiderate da Irene Vella - cinque esami mancanti alla laurea, causa sopraggiunta gravidanza - si sono tutte avverate per effetto della sua straordinaria bontà, ma ancor più della sua granitica determinazione. Dal 1989 al 2004 ha lavorato per Vodafone nel call center di Pisa. Poi s'è rassegnata a licenziarsi per seguire a Cesenatico il marito, che, superati i postumi dell'operazione, era stato ingaggiato dal Cesena come allenatore di calcio a 5. «Che fare da sola in casa tutto il giorno? Mi presentai alla redazione locale della Voce di Romagna. Fui ricevuta dal caporedattore, Mario Pugliese. Scoprii che eravamo nati lo stesso giorno, mese e anno. Mi disse: “Provi a portarmi entro domani un articolo sulla febbre del Superenalotto, sentendo tutte le ricevitorie da Cesenatico a Cervia”. Appena uscita, feci il giro delle tabaccherie. La sera stessa ero da lui con il servizio. L'indomani alle 7 aspettavo che l'edicolante alzasse la saracinesca: il mio pezzo era d'apertura in cronaca». Il resto è venuto di conseguenza, cioè per merito: inviata di Cristina Parodi live su La7, di Notorius su Italia 1 e ora di X Style su Canale 5.

Per essere una vocazione tardiva, ha bruciato le tappe. Come ha fatto?

«A forza di scoop. La prima sera che Simona Ventura conduceva L'isola dei famosi su Rai 2, si materializzò in video un aitante finanziere. Il giorno dopo ero a Marina di Pisa, dove viveva, a bussare alle porte di parenti, amici, ex fidanzate. Scoprii tutto ciò che c'era da scoprire. Ed ebbi la mia prima copertina su Eva Tremila».

Porte in faccia mai?

«Ho il dono dell'empatia».

Andò così anche con suo marito?

«Suppergiù. Eravamo compagni di università, lui ingegneria, io giurisprudenza. Reduce da tre fidanzamenti Luigi e altrettanti io. Ci avevano già presentati due volte, ma io non me lo ricordavo per niente. Alla terza rimasi incantata a squadrarlo. Stava appoggiato al bancone del Borderline, un pub di Pisa. Un metro e 90, camicia bianca che lasciava scoperto il lungo collo, gambe muscolose che riempivano i jeans. Sono sincera: non c'è stato un lembo del suo corpo che non abbia immaginato spogliato. Era il 7 dicembre 1997. Da quel giorno ho avuto un unico pensiero: chiunque fosse, doveva essere mio».

È diventato suo.

«Io ho sposato il Furio di Bianco, rosso e Verdone - “tu mi adori, Magda? e allora lo vedi che la cosa è reciproca” - mentre lui ha sposato il caos. Siamo in totale disaccordo su tutto, ma innamorati quantomai. Lui atleta, io patata; lui conservatore, io ribelle; lui cacciatore, io animalista; lui masterchef, io quattro salti in padella. Quando lo sposai, ero già incinta. Arrivai di corsa all'altare per paura che ci ripensasse».

Le disse della malattia di Berger?

«Sapevo che ne era portatore sano, come suo padre. A 17 anni aveva dovuto smettere di giocare nel Pisa e nella serie B di pallavolo e abbandonare la nazionale di sci under non mi ricordo cosa. Questa sindrome può restare latente o incattivirsi, con ematuria e proteinuria, cioè sangue e proteine nelle urine. Ogni tanto Luigi diventava cupo: “Tanto lo so che finirò in dialisi”. Ma io non volevo crederci, lo vedevo onnipotente. Invece la malattia s'incattivì».

Quando?

«Il 31 gennaio 2000, circa un mese dopo la nascita di nostra figlia. Luigi ne attribuì la causa a un evento doloroso: la morte della madre per tumore a soli 49 anni. Quel giorno provò un dolore lancinante agli occhi. Mi telefonò dallo studio dell'oculista: “Il dottore mi fa ricoverare, ho la pressione minima a 150 e la massima a 200”. Il mio castellino di principessa azzurra crollò».

E che fece?

«Corsi in ospedale. Il medico di guardia fu crudele: “La creatinina di suo marito è a 5, anziché tra 0,50 e 1,4. Senza farla tanto lunga: in due anni sarà un dializzato. Poi non resterà che il trapianto”. Così andò. Nel 2002 lo misero in dialisi. Ma ci rimase solo due mesi».

Perché solo due mesi?

«Perché nei due anni precedenti io avevo lottato per convincerlo ad accettare un rene da me. Lui non voleva saperne, non mi portava nemmeno alle visite per paura che la nefrologa mi parlasse del trapianto da vivente. Fu la dottoressa un giorno ad aprirmi gli occhi: “Lo sa che il rene può regalarlo anche la moglie?”. Vidi la luce nel buio. E da quel momento presi a martellare Luigi in modo ossessivo affinché accettasse la mia offerta. Ci vuole più amore a ricevere un organo, che a donarlo, sa?».

Posso immaginarlo.

«Quando il coniuge bisognoso è davvero innamorato, il suo primo pensiero diventa: e se poi dovesse accadere qualcosa a lei? Perciò rifiuta l'idea di farsi aiutare. Io soffrivo nel vederlo sempre più stanco, non riusciva a giocare con la figlia di 2 anni, peggiorava di giorno in giorno, il colorito diventava giallastro. Alla fine ha capito. Però non è mai riuscito a dirmi: “Accetto”. È stato un silenzio-assenso. Mi ha insegnato la differenza tra chi ama a parole e chi ama con il corpo».

Quant'è durato il doppio intervento?

«Cinque ore per me, altrettante per lui. La prima a finire sotto i ferri del professor Boggi sono stata io. La nefrologa Gabriella Paleologo sostiene di non aver mai visto una paziente partire felice verso la sala operatoria. Mi sono risvegliata alle 14 in terapia intensiva. Temevo che fosse andato storto qualcosa. Invece mi avevano messo lì per precauzione. Alla sera ho potuto parlare con mio marito al telefono. Gli ho chiesto: come ti senti? “Meglio di stamattina. La creatinina da 10 è già scesa a 1,4”. Un super rene ti ho dato, m'è venuto spontaneo gridargli. Tre giorni dopo ero a casa».

È cambiato qualcosa nel suo stato di salute, con un solo rene?

«Nulla di nulla. Dormo, mangio, bevo. Ingrasso, dimagrisco, ingrasso. Diuresi normale. Mai una colica. La creatinina si mantiene a 0,80. Luigi invece dovrà assumere per tutta la vita i farmaci immunosoppressori. Ma sta benissimo, tanto che fa l'allenatore del Dolo».

Perché non avete aspettato un trapianto da cadavere?

«Guardi, io sono donatrice, ho pure la tessera dell'Aido, ma attendere che muoia qualcuno perché possa vivere un altro è molto brutto».

Ma è cadavere un corpo con il cuore che batte e il sangue che circola?

«Quando non funziona più il cervello, resta solo un involucro. Ne sono certa».

La scienza ignora l'80 per cento delle funzioni dell'encefalo. Come fa a decretare la morte cerebrale se di quell'organo conosce poco o nulla?

«Io alla morte cerebrale ci credo. E se l'anima di chi è morto vaga ancora nella stanza, sono sicura che non vuole rientrare in quel corpo».

Perché in Italia le più generose sono le donne, con il 69 per cento di donazioni rispetto al 31 degli uomini?

«Perché sono abituate a dare la vita».

Nel 71 per cento dei casi sono le mogli a regalare un rene ai mariti, mentre i maschi si fermano al 24.

«Non me ne parli. Ho conosciuto due donne che non erano affatto convinte di offrire il rene: le avevano convinte i mariti. Terribile. Io penso che il motore di tutte le cose sia l'amore. Che donazione è, se non è spontanea?».

I suoi genitori come hanno reagito?

«Non volevano che lo facessi. È stata dura farglielo digerire, anche perché sono figlia unica. Ho detto loro: se mi volete bene, dovete accettare la mia scelta. Ora Luigi è più di un genero, per mamma e papà: è un secondo figlio».

Immagino che vi sia una trafila burocratica per la donazione da vivente.

«Un giudice di Pisa mi ha convocata per accertare che fossi sana di mente. Gli ho spiegato che ero stata io a convincere mio marito. La mia avvocata, Cristiana Brogi, è scoppiata a piangere. È diventata la madrina di mio figlio».

E poi?

«Siamo stati interrogati separatamente da un'équipe composta da psicologo, medico legale ed esperto di bioetica. Infine le analisi cliniche, una ventina».

E per la compatibilità?

«Una fortuna sfacciata: due familiarità su sette, a cominciare dallo stesso gruppo sanguigno, A positivo».

Un trapianto di rene da donatore vivente dura il doppio degli anni di uno da cadavere, quasi che la natura volesse privilegiare l'altruismo di chi è vivo rispetto all'impotenza del cosiddetto morto cerebrale.

«Non me lo so spiegare. Mi hanno specificato persino che i reni donati fra coniugi resistono più a lungo».

Tre donatori viventi ogni 10.000 muoiono durante l'espianto. Non ha avuto paura?

«È lo stesso rischio di lasciarci le penne in un incidente stradale».

In Olanda i trapianti da vivente rappresentano il 60 per cento del totale, negli Stati Uniti il 50, in Italia il 10. Si torna sempre lì: c'è l'egoismo dietro il ricorso agli espianti da persone che non possono protestare.

«O l'interesse? Un dializzato costa 500 euro al giorno. Immagino che chi produce reni artificiali, farmaci e altro ci guadagni parecchio».

Su Vanity Fair l'anno scorso lei si occupò di una donna piemontese che aveva donato un rene al marito e poi fu lasciata. Capitasse a lei?

«Glielo staccherei a morsi, specialmente se ci fosse di mezzo un'altra donna. Farei come l'inglese Samantha Lamb, che al momento del divorzio pretendeva l'organo di ritorno. Ma non accadrà. Siamo due metà della stessa mela».

Invece l'americana Erica Arsenault ha donato un rene all'ex suocera Dorothy Wolferseder addirittura 10 anni dopo aver divorziato dal figlio Scott.

«Le nuore perdonano. Le mogli no».

(769. Fine)

Cari lettori, avete aspettato con pazienza per 769 settimane che, dopo tanti «continua», comparisse qui sopra la parola «fine». Quel momento è arrivato: domani lascio Il Giornale, dove ho trascorso in piena libertà gli ultimi 20 anni. Grazie per l'affetto che mi avete dimostrato in questo lungo arco di tempo e auguri di ogni bene. Mi mancherete.

lorenzetto@stefanolorenzetto.it

Il Giornale ringrazia Stefano Lorenzetto per questa serie, per la sua professionalità, per la sua competenza. Per tutto.

Ci mancherà. AS

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