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Macron fa la pace in Libia, nessuno firma

Intesa sulle elezioni, politiche e presidenziali, previste il 10 dicembre

Macron fa la pace in Libia, nessuno firma

Per ora Emmanuel Macron si deve accontentare di qualche sorriso e di qualche stretta di mano. Per un accordo sulla Libia, un Paese dove persino una firma ufficiale in calce ad un trattato vale poco o nulla, non è un granché. Ma al presidente francese, basta e avanza. Fin dall'entrata all'Eliseo uno dei suoi principali crucci è stato sottrarre all'Italia quell'iniziativa politica sulla Libia riconosciuta al nostro Paese da gran parte della comunità internazionale. E ora - complice il caos istituzionale che ci condanna all'impotenza - ci sta finalmente riuscendo. Certo da qui a scommettere su una Libia pronta già da domani a riunificare rappresentanze parlamentari, banca centrale ed esercito per andare al voto il prossimo 10 dicembre designando un nuovo Parlamento e una Presidenza fino a oggi non prevista istituzionalmente, ce ne passa. Ma poco importa. Gli obbiettivi ufficiali del vertice sulla Libia andato in scena a Parigi, e conclusosi senza la firma di alcun documento programmatico, non interessano né al presidente francese, né ai suoi ospiti libici. Macron desiderava innanzitutto veder riconosciuto il suo ruolo di mediatore e protagonista. E puntava a ottenerlo in una cornice garantita dalla presenza dell'Onu, dei principali attori libici e di una ventina di paesi, compresa un'Italia ridotta allo sgradevole ruolo di partner cornuto e mazziato.

A Fayez Sarraj, traballante premier del governo di Tripoli, l'atto di presenza serviva per ribadire il ruolo riconosciutogli da un accordo tra fazioni scaduto lo scorso dicembre. Un ruolo che l'inviato dell'Onu Ghassan Salamè ha recentemente ammesso di non saper come rinnovare. Al generale Khalifa Haftar - l'uomo forte della Cirenaica dato per agonizzante fino ad un mese fa - la comparsata parigina serviva soprattutto per dimostrare d'esser ancora vivo. Ma il veder fissata, per la prima volta, la data di una corsa alla Presidenza che rappresenta il sogno della sua vita, regala al generale il convincimento d'esser ancora il preferito dell'Eliseo. Ad Aguila Saleh, il presidente del parlamento eletto nel 2014, ma costretto prima all'esilio a Tobruk e poi ad un ruolo subalterno rispetto al bellicoso Haftar, il summit serviva, invece, per patteggiare il ritorno ad una Assemblea unica che gli garantisse un futuro nella geografia politica del paese. A un ritorno sulla scena favorito dai vecchi amici francesi guardano invece i Fratelli Musulmani rappresentati a Parigi da Khaled Al Meshri, presidente di un'istituzione fantasma come il Consiglio di Stato. Al di là delle intenzioni vere o presunte dei suoi protagonisti il vertice di Parigi va però analizzato anche in base alle intenzioni e ai propositi degli assenti. In prima linea tra questi c'è Misurata, la città guerriera decisa, già da ora, a giocare il ruolo di principale guastafeste rispetto ai piani di Macron e dei suoi ospiti.

Non a caso la città, protagonista cruciale di tutto il caos del dopo Gheddafi, ha già mobilitato le sue milizie mandandole a presidiare i ministeri e le sedi del governo di Tripoli. Milizie pronte a smantellare a colpi di kalashnikov, come già fatto tante volte in questi anni, gli accordi, le intese e le strette di mano scambiate ieri nella tranquilla e rilassata cornice del vertice parigino.

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