Malaria, sfogo del papà di Sofia "In Italia ammalarsi è una colpa"

Malaria, sfogo del papà di Sofia "In Italia ammalarsi è una colpa"

Hanno taciuto per cinque giorni, chiusi nell'incredulità e nel dolore nella bella casa di Trento, mentre la loro tragedia privata diventava un caso nazionale e internazionale, mentre la commozione per la morte di Sofia, uccisa a quattro anni dalla malaria, cedeva il passo allo scandalismo e alle polemiche più sgangherate. Ieri, non hanno retto più. E dal suo profilo Facebook, il padre di Sofia ha spiegato chiaramente quanto poco il dramma della famiglia di Sofia sia stato rispettato: nè dai giornali, nè dai magistrati che hanno sequestrato il corpo della bambina senza nemmeno avvisare i genitori, per sottoporla ad una autopsia che i medici avevano invece considerata inutile.

«Impotenti, così ci si sente - scriva Marco Zago, il papà della piccola - nell'affrontare una malattia infida e aggressiva come la malaria, nonostante la cordialità e l'impegno costante di medici e infermieri. Impotente: così ci si sente quando i media ti assediano senza rispettare il tuo dolore. Impotente: così ci si sente nell'apprendere dai giornali che il corpo di tua figlia è sotto sequestro prima e che verrà sottoposto ad autopsia poi, senza essere stati minimamente informati, neanche si trattasse dei beni di un malavitoso. Purtroppo ammalarsi in Italia non è una sfortuna ma una colpa».

Parole terribili, cui il procuratore della Repubblica di Trento - uno dei due uffici giudiziari che indagano sulla morte di Sofia - si sente in dovere di rispondere chiedendo scusa alla famiglia: «Si è dato per scontato che fossero stati avvisati, volevamo soltanto velocizzare le procedure», spiega Marco Gallina. Ma più ancora della sciatteria degli inquirenti, più ancora dell'assedio dei media, forse inizia a pesare sulla famiglia l'apparente impossibilità di abbozzare una ipotesi sensata. Bisogna spiegare ciò che è apparentemente inspiegabile, questo è il problema.

Ci vorranno settimane, forse mesi, anche solo per superare quello che per ora è il primo bivio dell'inchiesta: appurare se il ceppo di plasmodium falciparum che ha stroncato Sofia sia lo stesso di cui soffriva la famiglia del Burkina Faso ricoverata negli stessi giorni al Santa Chiara di Trento. Se la risposta sarà affermativa, la pista obbligata diventerà quella del contagio in ambiente ospedaliero: al Santa Chiara, dove però tutti giurano e stragiurano che non c'è stata nessuna violazione dei protocolli, nessuna leggerezza in grado di passare a Sofia il sangue di una delle bambine africane. Non sarà facile dimostrare il contrario.

E ancora più lontana si farebbe la soluzione del caso se i risultati dell'autopsia (o le analisi, dal tema sostanzialmente identico, in corso all'Istituto superiore di sanità) dimostrassero che i due ceppi di plasmodium sono diversi: la pista del Santa Chiara verrebbe abbandonata, la convivenza sotto lo stesso tetto di Sofia e delle bambine africane perderebbe ogni significato, e tutto ritornerebbe in alto mare. Si dovrebbe, cioè, iniziare davvero a fare i conti con lo scenario che Paolo Bordoni, direttore generale dell'azienda sanitaria di Trento, già ieri evoca esplicitamente: «La situazione è molto complessa, non so se si arriverà ad una soluzione del caso e ciò sarebbe grave».

Oggi Sofia tornerà finalmente a Brescia a Trento, verrà restituita alla famiglia con il «nulla osta al seppellimento», triste lasciapassare della magistratura per i funerali. «Vorrei fare un appello accorato - dice il governatore del Trentino, Ugo Rossi - non sappiamo se domani ci saranno i funerali di Sofia, ma quasi certamente la famiglia intende vivere questo momento con riserbo assoluto.

In un momento così particolare, che sia domani o un altro giorno, prendiamoci una giornata per stare tutti zitti. È un appello - ha aggiunto - che faccio a tutti i trentini e anche ai giornalisti, pensando alla famiglia, che ha subito abbastanza dolore, un dolore non riparabile».

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