E alle otto di sera l'uomo del Colle dice sì. I numeri di maggioranza sono un po' risicati, il programma è solo abbozzato e c'è ancora il problema grosso di trovare un lavoro a Luigi Di Maio. «Ma questi non sono affari nostri - spiegano - Se la vedrà il presidente incaricato». Quello che conta è che ci siano sia «l'accordo politico» che «l'intesa programmatica» tra Pd e Cinque stelle, cioè le condizioni minime pretese da Sergio Mattarella per dare il libera al governo. E così stamattina alle 9,30 Giuseppe Conte salirà al Quirinale, verrà catechizzato dal capo dello Stato e succederà a se stesso.
A sorpresa, a fare l'annuncio non è il segretario generale della presidenza Ugo Zampetti, ma il consigliere per l'informazione Giovanni Grasso, che legge uno stringato comunicato di un paio di righe.
Si percepisce freddezza, distanza da una soluzione della crisi avviata però tuttora difficile. Premier uscente e rientrante, l'avvocato del popolo passerà quindi dalla guida di un esecutivo gialloverde a uno giallorosso. Sarà un mandato pieno, non esplorativo, e verrà accettato con riserva. Conte, dicono dal Colle, avrà adesso qualche giorno di tempo per «sviluppare i contatti» e completare il lavoro. Medierà, consulterà, smusserà. Dovrà tirare fuori il carattere. Seguendo quanto prescrive la Costituzione, dovrà prendere direttamente in mano la situazione per definire la squadra e scrivere il programma nei dettagli. Ci sono contrasti? Toccherà a lui risolverli. Liti sulle poltrone? Dubbi sul ruolo di Di Maio? Questioni sulle cose da fare e sui provvedimenti da prendere? Ci deve pensare il presidente del Consiglio. È il capo del potere esecutivo, non un passante, un notaio, un osservatore, o, come e successo per 18 mesi, il portavoce di decisioni prese da altri. Si rovescia dunque lo schema del 2018, quando lo sconosciuto avvocato faceva la spola tra Salvini, Di Maio e Mattarella con il programma e la lista dei ministri. Ora si farà al contrario.
Ma al Quirinale la responsabilizzazione di Conte, il suo nuovo vestito da premier vero e apprezzato perfino da Donald Trump, passa per la sterilizzazione delle pressioni esterne e le manovre di disturbo. Meloni che vuole scendere in piazza, Salvini che parla di tradimento della volontà popolare, i grillini che intendono sottoporre il sì al patto a un referendum attraverso la mitica piattaforma Rousseau. Il bombardamento dura tutta la giornata e l'unico che rispetta il ruolo del capo dello Stato ed elogia i suoi sforzi è Silvio Berlusconi. Mattarella però non si fa coinvolgere nella bagarre e si attiene all'agenda fissata: ricevere le delegazioni, ascoltare le proposte, verificare l'esistenza di una maggioranza solida. Quello che conta sono le indicazioni ufficiali dei partiti, li nello studio alla Vetrata.
Tutto il resto è noia, cioè propaganda. Il Colle decide in base agli atti formali, «non ci possiamo mettere a inseguire le dinamiche dei partiti», alcuni dei quali sembrano già in campagna elettorale. E anche l'insistenza dei 5s sul referendum tra gli iscritti, che all'inizio provoca una certa irritazione, viene presto derubricata da provocazione a iniziativa politica interna.
Del resto a quanto pare durante il colloquio con il presidente Di Maio non ne fa
cenno. Non ne parla nemmeno quando esce e si presenta ai microfoni. Gli iscritti a Rousseau diranno la loro, voteranno sul patto, ma la cosa non dovrebbe incidere sul governo. E semmai sarà un altro dei problemi di Conte.
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