Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha dato il buon esempio. Contestualmente all'assunzione dell'alto incarico, ha provveduto a decurtare il proprio assegno di mandato dell'importo costituito del proprio reddito da pensione di professore universitario. In questo modo il capo dello Stato non supererà il limite di 240mila euro annui di reddito, equivalente al primo consigliere di Cassazione, imposto come misura «moralizzatrice» dalla spending review versione Renzi. La seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Piero Grasso, non ha seguito a ruota. La dichiarazione dei redditi, presentata nel 2014 e relativa al 2013, ha infatti evidenziato un reddito complessivo, interamente composto da redditi da lavoro, pari a 316.513 euro.
Insomma, Grasso è 76mila euro al di sopra del limite che egli stesso l'anno scorso ha fissato per i dirigenti apicali del Senato da lui presieduto. Certo, i dati sono riferiti all'anno precedente all'entrata in vigore della nuova norma, ma è proprio la tempestività di Mattarella a metterlo «fuori gioco». Nel 2013, infatti, l'inquilino numero uno di Palazzo Madama aveva presentato una dichiarazione con redditi totali da lavoro per 176mila euro. Erano quelli relativi al 2012, ultimi anno nel quale ha ricoperto il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. L'anno successivo il suo reddito è lievitato di oltre 140mila euro, ma l'incremento avrebbe potuto essere maggiore se - poco dopo l'elezione alla presidenza - non avesse dichiarato di rinunciare a una parte cospicua dell'indennità spettantegli riducendola a 9mila euro mensili. Erano i tempi in cui tutto il centrosinistra bersaniano inseguiva la frugalità grillina (allo scopo di formare un governo) e anche Grasso si adeguò.
La questione del reddito del presidente del Senato è sempre passata sotto silenzio sia perché, personalmente, ha sempre raccolto consensi bipartisan (i suoi unici detrattori sono i fan dei magistrati palermitani istruttori del processo sull'ipotesi di trattativa Stato-mafia) sia perché la difficile situazione politico-economica, finora, ha posto la questione in secondo piano. L'argomento è stato riproposto una decina di giorni fa dal vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, in occasione del consiglio di presidenza riguardante l'abolizione del vitalizio per gli ex senatori condannati. «Chi guida le istituzioni e cumula redditi pubblici dia l'esempio e rientri sotto il tetto, ben alto, dei 240mila euro», dichiarò l'esponente di Forza Italia, lamentandosi per la bocciatura della proposta di procedere tramite legge e non con una modifica al regolamento. Montecitorio e Palazzo Madama, infatti, sono andati avanti come un treno sulla materia lasciando inascoltate le proteste delle opposizioni. «I vitalizi ai condannati saranno nella gran parte dei casi erogati ugualmente, mediante riabilitazione o garantendo la reversibilità per molti clamorosi casi del passato», aggiunse Gasparri sottolineando che «le modalità della decisione sono inoltre tali da far crollare l'inconsistente manovra demagogica ai primi ricorsi delle poche persone interessate». Una legge, invece, avrebbe consentito di togliere la pensione anche a alti burocrati e ogni altro genere di pubblico dipendente condannato per mafia o altri gravi reati.
La manovra propagandistica sullo stop ai
vitalizi dei condannati a pene superiori ai due anni è stata portata a casa. Con soddisfazione del premier Renzi, sempre attento alla spendibilità mediatica dei provvedimenti delle Camere. Per Grasso, invece, tutto come prima.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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