Rubato l'albero di Natale in galleria Umberto I a Napoli. Non vedo la notizia. Non capisco perché stupirsi. Il fatto accade da sempre, basta piazzare l'abete e, nottetempo, spuntano i guappetti che se lo portano via, segandolo al tronco e lasciando i resti, vaso, qualche addobbo ultimo, la miseria di un'immagine più miserabile dei protagonisti. Guardie, vigili urbani, polizia, sono sempre altrove o se, presenti, dormono, chiacchierano. Napoli è città senza limiti, non più eduardiana e nemmeno lontana figlia di Antonio De Curtis, ma ormai gomorriana come le impone la moda culturale, sociale, direi politica. Città maligna, dunque, nella quale l'albero dei desideri è una sfida inutile, persa a prescindere, tutti sapevano che sarebbe stato violentato, abusato, strappato, i nuovi hooligans spacciano droga, violenza e morte, fanno parte del folklore, le fiaccolate, come i cortei di protesta, sono un carnevale dell'ovvio dinanzi alle quali i guappi di cui sopra se la spassano. La galleria Umberto I non è più il luogo degli sciuscià ma delle baby gang che non lucidano scarpe ma stuprano la città inerme. Napoli vive il suo scuorno eterno, chiagne e fotte assieme, finge di reagire ma ormai si è arresa. Trova sfogo nel pallone, allestisce la guerra buona del Sud martire e vittima, contro il Nord, prevaricatore e cattivo, ma poi non riesce a difendersi dai propri parenti serpenti e mariuoli.
L'albero natalizio dovrebbe rappresentare il simbolo di una realtà diversa, in un momento particolare: è alto, bello, colorato, luminoso, ma a Napoli, unica al mondo, non riesce a passare la nottata. Trafugato come un rolex, scippato come una borsetta. Verrà collocato un nuovo albero, verrà nuovamente oltraggiato, la commedia prosegue all'insegna della miseria senza nobiltà.
Non vive giorni migliori il collega di Roma, ribattezzato Spelacchio. Un'altra immagine di deriva, una naufragio di denari e di idee, l'assenza totale del principio di responsabilità e, quindi, di vergogna. L'abete di Roma è diventato il simbolo di una vecchia Italia che speravamo di avere abbandonato, qualcuno lo ha definito l'albero delle zoccole, nel senso dei topi che dominano la città eterna, e dovrei chiedere scusa al maestro Olmi e alla sua opera cinematografica. Il film di Roma non è un'opera d'arte ma la proiezione del malessere e della malagestione della capitale. La Roma degli antichi Romani portò civiltà nel mondo tutto, la Roma dei moderni Romani esporta la sua grande bruttezza, Spelacchio ne è il fotogramma migliore, non una baby gang ma una squadra di cittadini per bene avrebbe potuto segarlo alla base per sottrarlo agli sberleffi ma l'abete moribondo e tristissimo è rimasto al suo posto prima di essere traslato, cimelio storico, in un luogo non meglio definito.
Milano, con orgoglio e la solita «bauscia» (bava) sta sotto il suo albero sponsorizzato, trenta metri di altezza e centomila lampadine davanti al Duomo, raduni di turisti e cittadini per la foto ricordo, gli addetti alla sicurezza controllano a vista eventuali scalmanati.
Tre città di uno stesso Paese, è sempre Italia ma divisa e
distinta, diseguale e opposta, contraddittoria e vigliacca, addirittura, di fronte al semplice rispetto per una pianta che è il simbolo di un momento ma può rappresentare la fede nel futuro. Forse stiamo perdendo anche quella.
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