Se non ci si può fidare di nessuno, non si deve dipendere da nessuno. Autarchia cibernetica: è questa l'arma vincente nella nuova guerra fredda, che le spie le mette nel computer. Va letto in quest'ottica l'esperimento che la Russia condurrà nelle prossime settimane: una disconnessione totale da Internet. L'obiettivo è di simulare il caso in cui il Paese venga tagliato fuori dalla Rete mondiale per effetto di un cyberattacco. Un test previsto dal cosiddetto Programma nazionale di economia digitale, un pacchetto di leggi sulle telecomunicazioni in fase di approvazione che punta a rendere l'Internet russo indipendente dal resto del pianeta. Ciò significa dirottare tutto il traffico su server posizionati fisicamente sul territorio nazionale e fare affidamento sulla propria copia del sistema dei domini, che non sia controllata dall'estero.
L'esperimento servirà ad avere un feedback sulla tenuta del sistema russo anche in caso di attacco non previsto alla sicurezza nazionale. Ma, viste le limitazioni già presenti nel Paese, il timore è che il Cremlino voglia arrivare a creare un sistema di filtraggio dei contenuti online simile a quello cinese. Anche perché la nuova rete «alternativa» che dirigerebbe il traffico su Internet sarebbe gestita dal Roskomnazor, l'agenzia governativa per le telecomunicazioni che già si occupa della censura dei contenuti sui motori di ricerca.
L'annuncio del test, però, indica che gli schieramenti (antichi) di questa nuova guerra si stanno polarizzando. E che anche Mosca, accusata di stare dietro gli attacchi hacker di mezzo mondo, sente la necessità di tutelarsi da quegli stessi pericoli. La stessa urgenza che sta spingendo sempre più governi a mettere al bando Huawei, gruppo cinese leader nel settore delle telecomunicazioni. La paura è che i dati affidati alle infrastrutture e ai dispositivi firmati Huawei possano finire nelle mani dell'intelligence di Pechino, con cui le aziende cinesi sono obbligate a collaborare. Sospetti che pesano non poco, visto che Huawei sta contribuendo a costruire la rete di ultima generazione 5G un po' ovunque nel mondo. I primi a lanciare l'allarme sulla potenziale pericolosità del marchio sono stati gli Usa, che hanno chiesto agli alleati di sabotare i prodotti Huawei. In molti stanno seguendo il suggerimento americano: Australia, Nuova Zelanda e Giappone hanno escluso l'azienda cinese dai bandi per il 5G, mentre in Europa Regno Unito, Francia e Germania hanno chiesto più garanzie. A non aver ancora preso una decisione è l'Italia. Pochi giorni fa La Stampa scriveva che Palazzo Chigi sarebbe pronto a rescidere ogni contratto con Huawei, ma il ministero dello Sviluppo economico ha smentito l'indiscrezione, riservandosi di «valutare l'opportunità di adottare le iniziative di competenza nel caso in cui si dovessero riscontrare criticità», che però «al momento non sono emerse». Per ora, quindi, in Italia Huawei continuerà a operare sia a Milano sia nell'area di Bari-Matera per lo sviluppo del 5G. A Prato e L'Aquila, altra area di test della rete, è coinvolta invece Zte, altro colosso cinese del settore.
Va ricordato che gli Usa con la Cina hanno aperta anche la partita dei dazi e degli scambi commerciali, così come quella del primato tecnologico. Ieri il presidente Donald Trump si è appellato al governo federale affinché l'intelligenza artificiale diventi una priorità.
«Data la velocità a cui l'innovazione avanza - si legge in un comunicato della Casa Bianca - non possiamo rimanere passivi dicendoci che la nostra supremazia è garantita». Il timore di restare indietro è dietro l'angolo. E nella nuova guerra fredda non ce lo si può permettere.
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