Roma Il caso Nave Diciotti, trasformata in vascello fantasma ostaggio della confusione politica, è la perfetta metafora del governo grillo-leghista. Pronto a far propaganda su tutto, ma lacerato da pulsioni diverse e senza nessuno al timone.
Un premier ci sarebbe, in teoria, e toccherebbe a lui dare la linea. Per questo faceva impressione, ieri, notare come nella lunga e verbosa intervista concessa al Corriere, in cui parlava di tutto un po' (da Genova alla Tap, dalle privatizzazioni all'Europa alla prossima finanziaria), Giuseppe Conte si sia ben guardato dal dire una parola sul caso Diciotti, e il cortese giornalista dal chiedergliela. Comprensibile, del resto: che avrebbe potuto dire? C'è Toninelli che annuncia l'attracco a Catania e riconosce ai «valorosi uomini della Guardia costiera» di aver «compiuto il proprio dovere salvando vite umane». Ma c'è anche Salvini che, in un batter di tweet, lo smentisce e decreta che non un solo uomo scenderà dalla nave finché i 177 profughi, sballottati da una settimana in mare, non saranno accolti da altri Paesi. Quindi c'è il ministro degli Esteri Moavero che inizia il giro delle sette chiese nella Ue, per chiedere aiuto. La Ue che si attiva, e Salvini che intanto attacca Bruxelles e gli altri partner e minaccia rappresaglie. Nel frattempo Toninelli (nel frattempo andato in ferie) si fotografa col cappello della Guardia costiera criticata da Salvini. C'è Palazzo Chigi muto, e il Quirinale che fa trapelare la sua preoccupazione e auspica un rapida soluzione umanitaria, mentre Roberto Saviano accusa il governo di «sequestro di Stato».
La confusione ideologica regna - quella sì - sovrana nelle menti dei nostrani «sovranisti». Con risultati paradossali, che sfidano la logica e il principio di non contraddizione. Da una parte, infatti, si invoca il ruolo dell'Europa, che secondo il governo deve attivarsi per obbligare i vari Stati membri a redistribuire tra loro i migranti che Salvini non vuole far sbarcare, e sanzionare i renitenti. Dall'altra, però, quello stesso ruolo cogente della Ue viene quotidianamente minato dagli attacchi di una maggioranza che rivendica il proprio credo «sovranista», per il quale ogni singolo paese deve poter fare come capperi gli pare senza cedere un briciolo della propria adorata «sovranità» ai perfidi burocrati bruxellesi né sottostare ai loro diktat. Esattamente come teorizzano quei paesi del patto di Visegrad cui l'Italia giallo-verde guarda come principali alleati politici, e che naturalmente sono i primi a lavarsene le mani delle carrette piene di profughi: «Noi non ce ne prendiamo neppure mezzo», fanno sapere, in barba alle redistribuzioni invocate da Salvini. E allora perché - se questi proclami del l'Ungheria orbaniana vengono applauditi dai leghisti - Francia, Malta o Germania diventano nefandi traditori se si comportano in modo simile?
Del resto, è stato proprio il premier Conte a rivendicare come un clamoroso successo delle sue sopraffine doti di mediazione diplomatica le conclusioni del Consiglio europeo di fine giugno: «Siamo soddisfatti, l'Italia non è più sola», proclamò. Peccato che, in verità, quell'accordo da lui sottoscritto sancisse esattamente il carattere «volontario» della redistribuzione dei migranti tra i vari paesi, lo stesso di cui ora ci si lamenta. Una volontarietà che, dal canto suo, l'Italia grilloleghista vuole esercitare: prova ne sia la lettera alla Ue con cui il premier maltese Muscat, oltre a denunciare il clima di tensione e di continui attacchi alimentato dall'Italia tra i partner europei, ricorda che anche Roma promette e non mantiene.
Il governo si era infatti impegnato a prendere in carico, insieme agli altri paesi, una quota (20) dei migranti fatti sbarcare in luglio a La Valletta da una nave Ong, ma - dice Muscat - si è ben guardata finora dall'onorare il patto. Salvini chiede che l'Unione europea costringa o sanzioni i paesi che rifiutano la ridistribuzione. Ma vale solo per gli altri, o anche per noi?
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