Non ci saranno emendamenti con il compromesso trovato in direzione. Liti sul controllo del patrimonio immobiliare

RomaNiente emendamento del governo sul Jobs Act con dentro il compromesso tra il premier Renzi e il Pd. Forse ci sarà un ordine del giorno, oppure niente se non la promessa di aggiustare la riforma dell'articolo 18, quando si tratterà di attuare la legge. La battaglia sulla delega lavoro dentro la maggioranza non si è sgonfiata con la vittoria di Renzi alla direzione Pd. Complici le spinte contrapposte nella maggioranza (c'è chi come il Ncd non vuole fare marcia indietro e chi invece pretende di lasciare il reintegro dei lavoratori licenziati ingiustamente, cioè la sinistra Pd) l'orientamento dell'esecutivo è rinviare lo scontro.

Ieri il premier Matteo Renzi ha ironizzato su un eventuale appoggio di Forza Italia («Ho visto che Wall Street sta tremando», ha detto commentando la notizia che la assemblea di Fi ha deciso di non votare la riforma) ma il nervosismo c'è. Intanto sarà difficile mettere la fiducia in una legge delega, come ha sottolineato Alfredo D'Attorre del Pd. Un emendamento finirebbe per creare tensioni pericolose. «La norma, così come è scritta, consente già di fare ciò che si vuole fare», ha spiegato ieri il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Quindi niente emendamento per il momento. «C'è una discussione sullo strumento, su come fare a definire la conclusione di questa discussione. Il problema è di tipo politico».

Politico, nel senso di voti e di compattezza del gruppo del Pd in Parlamento. Dopo la direzione, la minoranza del Pd aveva cantato vittoria, ma ieri è restata in silenzio. Solo Susanna Camusso, segretario della Cgil e punto di riferimento di chi si oppone al premier dentro il suo partito, ha criticato Poletti sostenendo che l'ordinamento non prevede «che una delega permetta di fare quello che si vuole, perché sarebbe come dire che non siamo più una Repubblica parlamentare».

Se non ci sarà l'emendamento del governo, insomma, potrebbero rispuntare quelli del Pd, che puntano a reintrodurre di fatto l'articolo 18.

Uno spiraglio di mediazione lo ha fatto ancora una volta intravedere il presidente del partito Matteo Orfini. Meglio un emendamento, «ma se si decidesse di votare un ordine del giorno non sarebbe la fine del mondo», ha commentato ieri. In sostanza, si tratterebbe di aspettare «l'attuazione nei decreti delegati del governo».

Soluzioni ancora allo studio, che non risolvono i problemi in casa dem. Ieri l'ex segretario Pier Luigi Bersani ha assicurato che non farà scissioni, «il vero condizionamento deve avvenire da dentro. Ma non accetto lezioni».

Avvertimenti fondati, più che su voti da sottrarre a Renzi, sul patrimonio del partito. Lo stesso Orfini assicura che «la scissione non esiste, è un'ipotesi del tutto infondata. Ma è vero che esiste ancora un patrimonio, soprattutto immobiliare, che era dei Ds e che rimase nella loro disponibilità» quando fu fondato il Pd. «Forse - auspica il presidente - è giunto il momento che, con un atto di generosità, gli ex Ds lo devolvano al Pd. È una questione delicata, ma prima o poi andrà posta». Conferme sul nodo patrimonio immobiliare democratico, dall'ex tesoriere Antonio Misiani. La questione è stata esaminata ed è complessa.

Anche perché Sposetti, tesoriere che salvò i Ds dal fallimento, ha diviso quello che resta del mattone democratico in una miriade di fondazioni. Difficili da controllare per Renzi, soprattutto considerando che le chiavi le hanno, di fatto, i suoi oppositori.

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