Il punto non è fare o non fare affari col Dragone. Al mercato del Mondo, dove tutti andiamo per vendere più di quanto compriamo, l'Italia è un esportatore netto, con un surplus commerciale di 41 miliardi di dollari, oltre il 9%. Quasi due terzi degli scambi avvengono nel vecchio continente (inclusa la Russia) e sono in equilibrio. Con la Cina abbiamo un saldo negativo: esportiamo per 16 miliardi e importiamo per 32. È un'economia emergente, si dirà, con un costo industriale competitivo. Sarà, però col resto dell'Asia il nostro interscambio è positivo per il 24% - col solo Giappone siamo al 67%. Dunque, la nostra missione è far comprare più prodotti made in Italy ai cinesi. Questa è la parte meno critica degli accordi, che non possono uscire dall'alveo delle politiche commerciali dell'Ue, a cui compete la materia. Parlare di vendere i nostri prodotti può andar bene per qualche comizio di quart'ordine al tg, niente di più.
No, la Belt-and-Road è un tavolo infrastrutturale, non commerciale, dove nel piatto ci sono opere da realizzare (le mettiamo noi) e soldi per pagarle (li mettono loro). Trattandosi di investimenti, che si snodano nel tempo, il sapore del cibo nel piatto cambia: succulento all'inizio, quando costruisci a debito, indigesto alla fine, quando il debito scade. Ne sanno qualcosa gli Stati africani che hanno ricevuto tra il 2006 e il 2017 qualcosa come 137 miliardi di dollari dalla Cina, che a settembre scorso ne ha prospettati altri 60. Quei debiti, in larga misura non rimborsabili, sono lo strumento di un nuovo colonialismo, di tipo finanziario, meno visibile e più subdolo, che in questo secolo sta sostituendo quello economico di stampo americano del 900, che a sua volta aveva preso il posto di quello politico-militare praticato dagli europei, poi schiantatosi sotto il peso delle due guerre mondiali con cui l'Europa si è suicidata.
Tornando al tavolo, se l'opera sta in Africa va bene, se sta a Palermo non tanto, perché il debito è nostro e noi italiani non arriviamo mai alla fine del pasto, preferendo da tre decenni rifinanziare il debito con altro debito, pur di mangiare sempre cibo caldo e lasciare i rimasugli per i nostri figli. Siamo noi il vero tema in discussione, non la Cina. O meglio, noi e la Cina. Un Paese strozzato dal debito, che per giunta ne sta facendo di più, accostato a un gigante in cerca di infrastrutture da finanziare è una miscela molto incendiabile.
Dobbiamo accettare, una volta per tutte, che nel Mondo esistono dei player giganti e altri si stanno formando. L'Ue è uno dei player, se gioca unita. Divisi, nessun Paese europeo è in grado di competere ad armi pari: non con la Cina e nemmeno con gli Usa.
In pratica, le questioni di bilancia commerciale Italia-Cina vanno affrontate con l'Ue, contando di più dentro l'Ue. Per le altre attività, va benissimo fare affari con tutti, ma mai da una posizione di debolezza. E, dispiace ripeterlo, la nostra debolezza più grande resta sempre il debito.
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