Politica estera

Nuovi documenti nel garage di Biden. Il caso al gran giurì, dem in imbarazzo

Il presidente: "Collaboro". E il suo legale parla di "distrazione"

Nuovi documenti nel garage di Biden. Il caso al gran giurì, dem in imbarazzo

Washington. «Imbarazzante». Anche la stampa americana più benevola nei confronti di Joe Biden inizia ad usare l'unico aggettivo (al momento) calzante, nella vicenda dei documenti classificati, sparsi tra uffici privati e case del presidente Usa. Biden è stato colto in fallo non una, ma ben due volte. La prima volta, lo scorso 2 novembre, a ridosso delle elezioni di Midterm - sebbene la vicenda sia emersa solamente nei giorni scorsi - quando il team di legali del presidente ha fatto la prima «scoperta».

Durante il trasloco dell'ufficio che l'allora vice di Obama, ma anche successivamente da privato cittadino, aveva all'interno del Penn Biden Center for Diplomacy and Global Engagement, un think tank di Washington lanciato dallo stesso Biden, erano state trovate una decina di carte top secret. Tutta roba che sia da vice presidente, che da ex, Biden non era autorizzato a tenere in quella location. «Imbarazzante», appunto. Soprattutto se in relazione alla valanga di polemiche (e alla conseguente inchiesta) che ha investito Donald Trump, per la vicenda delle carte segrete della Casa Bianca, sequestrate nella sua residenza di Mar-a-Lago. Eppure, la questione poteva ancora essere rubricata alla voce, «distrazione», magari attribuendone la colpa ad un membro dello staff. Lo stesso Biden, mentre martedì era impegnato a Città del Messico nel vertice dei leader del Nordamerica, è stato costretto ad ammettere la sua «sorpresa», affermando di «non sapere» cosa contengano i documenti, sebbene secondo quanto emerso sembra si tratti di materiale di intelligence riguardante tre Paesi: Iran, Regno Unito e Ucraina.

Il presidente ha assicurato, come già aveva fatto la Casa Bianca, che subito dopo il ritrovamento erano stati «immediatamente» avvertiti i National Archives, i legittimi «proprietari» del materiale, che a loro volta avevano allertato il dipartimento di Giustizia, che ha lanciato una «valutazione» del caso, affidata al procuratore di Chicago John Lausch, peraltro nominato da Trump. Si è tentato, in questo modo, di segnare una differenza con l'ex presidente, non solo per la quantità del materiale (in casa del tycoon sono stati sequestrati centinaia di file riservati), ma anche per l'atteggiamento collaborativo con le autorità. A complicare la questione, però, l'indiscrezione giunta giovedì mattina, poi confermata dal consigliere legale della Casa Bianca, Richard Sauber, di una nuova scoperta: un «piccolo numero» di carte top secret, anch'esse risalenti all'Amministrazione Obama, custodite stavolta nel garage e nella libreria della residenza privata di Biden a Wilmington, in Delaware. Niente, invece, sarebbe stato trovato nell'altra residenza del presidente in Delaware, a Rehoboth Beach. Al fuoco di domande dei cronisti della Casa Bianca, che già il giorno prima avevano fiutato l'odore del sangue, mettendo in evidente difficoltà la malcapitata portavoce Karine Jean-Pierre, Biden ha ripetuto quanto già detto in Messico, assicurando «piena collaborazione» con le autorità che stanno indagando. E Richard Sauber, il legale di Biden, punta sulla distrazione. «Siamo fiduciosi che un'attenta indagine dimostrerà che questi documenti sono stati spostati inavvertitamente e che il presidente e i suoi avvocati hanno agito prontamente dopo aver scoperto questo errore».

Un'altra presa di distanze dall'atteggiamento di Trump, che nel frattempo, sul suo social network Truth, tuonava e chiedeva «perquisizioni alla Casa Bianca». E se è vero che tra le due vicende ci sono evidenti differenze, è pur vero che, non aver rivelato, «prima» delle elezioni di Midterm la scoperta nell'ufficio di Washington, getta un'ombra di sospetto sulla genuinità dell'atteggiamento di Biden e del suo entorurage.

Ed è esattamente l'accusa che viene lanciata dal nuovo speaker della Camera, Kevin McCarthy, che parla di doppi standard e di un «uso politico» della giustizia da parte dei Democratici.

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