Le imposte ambientali, spuntate negli anni Novanta, dovevano essere la punta di diamante del fisco dal volto umano. Quelle che, dopo le vessazioni tributarie e gli sperperi statali delle ere precedenti, nelle promesse dei legislatori avrebbero restituito fiducia nelle istituzioni e nel fisco. Finalmente, si diceva allora, il contribuente pagherà senza lamentarsi perché la causa è nobile, come quando si versano soldi a un ente benefico.
Nel caso specifico le tasse per l'ambiente dovevano risolvere un monte di problemi. Dall'efficienza energetica e la promozione delle fonti alternative, allo smaltimento dei rifiuti, fino al dissesto idrogeologico. Ma niente di tutto questo è successo, come dimostrano i danni provocati dall'esondazione a Genova. Le tasse, manco a dirlo, ci sono e hanno il loro bel gettito, solo che la destinazione dei soldi raccolti da i cittadini è ignota. Di ambientale c'è solo il nome.
Queste le cifre elaborate ieri dalla Cgia di Mestre: «Nel 2012 le imprese e le famiglie italiane hanno versato all'Erario, alle Regioni e agli Enti locali la bellezza di quasi 47,2 miliardi di euro di tasse ambientali. Di questo importo, solo 463 milioni di euro, pari allo 0,98 per cento, sono stati destinati alle attività di salvaguardia ambientale per le quali sono state introdotte, vale a dire le opere e gli interventi per la messa in sicurezza del nostro territorio. I rimanenti 46,7 miliardi, invece, sono stati impiegati per altre finalità».
Del bigliettone verde da cento che il bravo contribuente pensa di avere destinato alla pulizia dei torrenti, alla riduzione dell'inquinamento e alle energie rinnovabili, solo una moneta da un euro va diritta al bersaglio. Il resto, a piacere della pubblica amministrazione, può finire a finanziare qualche consulenza, a rimpinguare i fondi per i gruppi consiliari o in misure che, in termini di voti, danno risultati migliori. Magari a finanziare attività inquinanti. Difficile saperlo perché nelle tasse di scopo made in Italy, lo scopo si perde nelle nebbie di bilanci che dovrebbero essere pubblici, ma in realtà sono scritti per non essere capiti dai cittadini.
Un vizio vecchio di 20 anni - spiega il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi - costato ai contribuenti 847,3 miliardi, dei quali solo 7,3 sono finiti in politiche ambientali.
Le occasioni per spillare ecotasse sono di varia natura. Lo Stato si è premurato di colpire per via tributaria, ad esempio, attività inquinanti come le discariche, le emissioni di anidride solforosa. Ma spesa pubblica per ovviare i problemi dell'inquinamento, non c'è traccia. Poi, per tutti, la tassa provinciale per la tutela ambientale. È da qui che dovrebbero arrivare misure come la messa in sicurezza dei corsi d'acqua. I disastri che colpiscono sempre le stesse aree sono la dimostrazione empirica della sua inutilità. C'è pure l'imposta regionale «sulle emissioni sonore degli aeromobili» a fare venire il sospetto di quanto questi tributi non abbiano scopi precisi. A meno che questa non serva a finanziare l'acquisto di milioni di tappi per le orecchie.
L'elenco comprende le «sovraimposte di confine» su Gpl e oli minerali, l'imposta sugli stessi oli, sui gas incondensabili, sull'energia elettrica, sul gas metano (che per la verità inquina poco) e sui consumi di carbone. Si trovano studi degli anni Novanta, che utilizzavano il gettito di queste imposte come un indice della consapevolezza ambientale. Ed effettivamente, i contribuenti sono diventati negli anni sempre più fisco-ambientalisti, visto che sono passati da un gettito di 22 milioni ai 47 milioni di due anni fa.
Anche il Pra, le imposte sull'Rc auto e le tasse automobilistiche sono state nel tempo giustificate con obiettivi ambientali.
A ben guardare, le ecotasse servono a coprire, con un bel nome o una destinazione nobile, alcune gabelle poco gradite. Puro Marketing truffaldino. Se lo facesse un privato, arriverebbe subito una sanzione dell'Antitrust.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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