Due sistemi che fanno a pugni. Negli Usa la divisa è uno scudo davanti alla legge. Non garantisce al poliziotto che spara l'impunità, ci mancherebbe, ma certo gli assicura un trattamento particolare. Qua, sia detto senza ironia, l'automatismo funziona al contrario. E le nostre cronache sono intasate da poliziotti e carabinieri sotto processo per omicidio. Colposo o addirittura volontario, a seconda delle situazioni e dell'orientamento della magistratura.
C'è davvero un oceano a dividere Washington da Roma. E le decisioni dei giudici lo dimostrano. Partiamo da Ferguson, nel Missouri. Il 9 agosto scorso l'agente Darren Wilson spara 12 colpi, dodici non uno, contro il diciottenne afroamericano Michael Brown. Brown muore, ma oggi il Gran jury stabilisce di non incriminare l'agente. Tre mesi dopo, il caso è chiuso, anche se il paese s'incendia e la protesta dilaga.
A Napoli il percorso del carabiniere che ha fulminato con una sola pallottola un altro giovane, Davide Bifolco, è un tornante dopo l'altro. Bifolco era su un motorino senza casco e su quello scooter, secondo i militari, c'era un latitante. In ogni caso il mezzo non si era fermato davanti alla paletta rossa. Si può andare avanti nell'analisi e cercare i punti che accomunano o differenziano le due storie. Non è centrale, almeno in questa fase. E' chiaro invece che l'agente si infila in un mare di guai. Va incontro, di solito, ad indagini complesse ed estenuanti. Poi, magari a distanza di anni, deve fronteggiare un processo e accuse pesanti. Con coda garantita di polemiche. Negli Usa no. Il Gran Jury fa una scelta pragmatica, brutale da un certo punto di vista, ma definitiva. Concede, come è costume in quel mondo, quello che il Washington Post chiama il «beneficio del dubbio». Per dirla tutta c'è una sorta di pregiudizio favorevole. E il pregiudizio, in concreto, apre una strada che porta dritta verso l'archiviazione della posizione. I testimoni oculari, infatti, offrono versioni assai divergenti. Insomma, come spesso capita, la ricostruzione di quel che è accaduto è controversa. E qui scatta il pragmatismo all'americana. Se il processo si profila all'orizzonte assai tortuoso per l'accusa e le possibilità di arrivare a una condanna sono ridotte al lumicino, allora lo stesso processo diventa una perdita di tempo. Meglio non cominciare nemmeno a discutere. Anche se fuori la gente è infuriata e si susseguono gli scontri, con feriti e arresti. Non importa. «La questione - riprende il Washington Post - non è se l'agente abbia sbagliato, ma se ci sia una ragionevole chance di farlo condannare».
A Ferguson la giustizia ritiene che il gioco non valga la candela. Troppi dubbi. Troppe discordanze. Troppo di tutto. E una divisa da difendere. Game over. Per la nostra giustizia tre mesi sono un battito di ciglia. Non solo. In Italia il pregiudizio, se c'è, è di segno contrario. Una certa cultura vede con sospetto, quasi un sospetto preventivo, l'agente che fa fuoco.
E quasi sempre lo trascina dentro un procedimento segnato da colpi di scena, perizie, qualche volta sentenze contrastanti, come in uno sceneggiato a puntate. Alla fine, dopo una lunga carambola, l'eventuale assoluzione provoca altre scintille. E magari l'annuncio di una nuova indagine e di un nuovo procedimento. Il carosello non finisce mai.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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