Milano Del disamore del Partito democratico verso la magistratura la prima a fare le spese è la Procura di Milano: ed era in fondo ovvio che fosse così, visto che da trent'anni gli scontri tra politica e giustizia cominciano sempre sotto la Madonnina. Ma non è affatto detto che il voto del Senato contro l'utilizzo delle intercettazioni di Silvio Berlusconi con alcune «Olgettine» sia destinato a innescare uno scontro. Lo schiaffo, o almeno il buffetto, c'è stato: sintomo di una insofferenza montante nelle file renziane verso l'invadenza della magistratura. Ma, almeno per ora, può darsi che la faccenda muoia lì. E per più di un motivo.
Il primo è che comunque il niet del Senato non riavvolge il nastro della cronaca, non fa ripiombare le intercettazioni nel segreto. Ormai le sfuriate delle ragazze al Cavaliere, le continue pretese di soldi, le minacce, sono di dominio pubblico, e almeno mediaticamente il danno è fatto. Il secondo è che, in realtà, quelle intercettazioni, raccolte in un filone collaterale e fatte confluire nell'inchiesta «Ruby ter», potrebbero in teoria portare acqua al mulino della difesa del Cavaliere, che più che un corruttore di testimoni a volte vi appare come la vittima di un'estorsione. Il terzo è che il cosiddetto processo «Ruby ter» è fermo, bloccato in fase di udienza preliminare a causa del ricovero di Berlusconi in ospedale, ma nel frattempo si è frantumato in sette processi diversi sparsi per l'Italia, e insomma appare destinato a muoversi con grande lentezza o anche a non muoversi affatto, almeno per un bel po'.
Ma a rendere improbabile una reazione polemica da parte della Procura di Milano c'è anche la transizione appena compiuta dai suoi vertici. Finita l'era di Bruti, si è appena insediato il suo successore Francesco Greco, eletto praticamente all'unanimità dal Consiglio superiore della magistratura, compresi i membri di nomina politica. Greco ha davanti a sé un programma impegnativo di riorganizzazione dell'ufficio, e non è detto che voglia nel frattempo andare allo scontro con il Parlamento, oltretutto su una inchiesta figlia di un'altra gestione e di un'altra era.
In teoria, la Procura avrebbe un'arma a disposizione contro la decisione di ieri del Senato: sollevare un conflitto davanti alla Corte Costituzionale, accusando Palazzo Madama di avere straripato dalle sue competenze che dovrebbero limitarsi alla verifica del fumus persecutionis. Sarebbe la seconda volta che la Consulta si occuperebbe del caso Ruby: nel 2011 aveva dato ragione alla Procura, rifiutando di trasmettere gli atti al tribunale per i reati ministeriali come pretendeva la Camera.
Ma ora parecchia acqua è passata, Berlusconi non è più presidente del Consiglio e il suo ruolo nella politica attiva è condizionato dalla
convalescenza. E, soprattutto, in Procura sospettano che lo sgarbo del Senato non è ispirato tanto dal Cavaliere e da Forza Italia quanto dal presidente del Consiglio. È con lui, adesso, che le toghe sanno di dover fare i conti.
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