Massimo Malpica
Roma Nessuna omonimia. Solo un caso di perdita, forse temporanea, di memoria. Il Guardasigilli Andrea Orlando, che ora sussulta di fronte allo «scenario inquietante e improponibile» di una eventuale alleanza tra Pd e Forza Italia, evocando un «referendum tra gli iscritti dem», è lo stesso che non si tirò indietro nel governo Letta, un esecutivo di larghe intese nel quale l'allora dirigente Pd ricopriva l'incarico di ministro dell'Ambiente, con Forza Italia a sostenerlo. E proprio nel suo dicastero, lo scandalizzato Orlando riusciva serenamente a convivere con lo stesso scenario che oggi rifugge, ritrovandosi come sottosegretario nientemeno che un «azzurro», per la precisione Marco Flavio Cirillo, alla sua prima e finora unica esperienza di governo, e rimasto in carica fino all'avvento di Renzi, dunque anche dopo il passaggio di Forza Italia all'opposizione.
Un capitolo del suo curriculum politico che evidentemente l'esponente dem avrà rimosso, tanto da reclamare che sia la «base» adesso a dire la sua. Una preoccupazione che evidentemente all'epoca, pur facendo parte del gruppo dirigente del partito, non doveva averlo nemmeno sfiorao l'attuale ministro della Giustizia. Che di sicuro non è stato sempre così ostile a «condividere» responsabilità ed esperienze politiche con il partito di Silvio Berlusconi. Anche dal punto di vista dei rapporti umani, in fondo, si è sempre distinto per la cordialità nei confronti degli esponenti del centrodestra, con i quali ha anche condiviso tavolate e serate romane all'insegna delle larghe intese della forchetta, e in molti lo ricordano in compagnia di parlamentari azzurri, per esempio, in piazza delle Coppelle.
Andando ancora più indietro nel tempo, un tempo rimosso dal Guardasigilli smemorato, è sempre Andrea Orlando che nella primavera del 2010, quando era responsabile giustizia del Pd all'epoca all'opposizione, si rese protagonista di un'iniziativa che fece non poco scalpore. Snocciolando, con un lungo intervento ospitato dal Foglio allora diretto da Giuliano Ferrara, il 9 aprile, le «cinque proposte del Pd per riformare la giustizia con la maggioranza». Una mano tesa a Forza Italia e al governo di centrodestra per mettere mano al sistema in modo condiviso, sposando pure la separazione delle carriere, ipotizzando «norme che rafforzino il criterio della distinzione dei ruoli, precisino le incompatibilità e i limiti temporali di permanenza nei diversi uffici», oltre a proporre una stretta all'efficacia dell'azione disciplinare.
Anche allora nessun referendum diede il via libera all'intervento. Infatti molti non accolsero benissimo le «cinque proposte» di Orlando, con Antonio Di Pietro tra i più arrabbiati. L'ex leader Idv per la sua replica si affidò a un velenoso sarcasmo, consigliando «agli amici democratici» di «cambiare responsabile Giustizia», e suggerendo poi una nuova carriera «al povero Orlando: perché non va a fare il consigliere giuridico di Berlusconi?». Né i dem né lo smemorato diedero ascolto a Di Pietro.
Ma proprio quell'intervento avrebbe anni dopo contribuito a far considerare la scelta di Orlando come Guardasigilli del governo Renzi come non ostile per Berlusconi, certo più gradita al Cav di altri nomi, come quelli di Raffaele Cantone e Nicola Gratteri.
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