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Pizzino a Gentiloni: il governo va sotto Ma lui prova a resistere

La confidenza agli amici: "C'è ancora tanto lavoro da fare". E vara un piano da 15 anni

Pizzino a Gentiloni: il governo va sotto Ma lui prova a resistere

Detto senza offesa per nessuno, Paolo Gentiloni è romano, conte, e di lontane origini marchigiane. Non pisano. Dal che si potrebbe facilmente dedurre una certa distanza antropologica da Enrico Letta.

Senonché, come sanno i romani attempati, anche i marchigiani furono gabellieri, all'epoca del Papa Re. E una versione del famoso «meglio un morto 'n'casa che...», risuona anche tra Borgo Pio e Tor Marancia, con i marchigiani nelle vesti dei pisani. Da ciò si potrebbe dedurre una (quasi) uguale distanza del nostro premier da Matteo Renzi.

«Non mi metterò di traverso» è la frase propria del conte Gentiloni, oggi come non mai, stretto nella morsa tra Quirinale e Nazareno, tra i conti di Padoan e quelli di Renzi, tra i rischi di una speculazione finanziaria e i vantaggi di una bella vacanza estiva, magari da replicare con fantastico viaggio autunnale. La data di partenza è ancora incerta: Grillo pare aver saputo interpretare il segreto desiderio renziano, indicando il 10 settembre, così da anticipare persino i tedeschi, e andare di slancio verso una manovra che sappia mettere subito a tacere mercati e burocrazie di Bruxelles.

Senonché, l'Italia non è la Germania. E anche qualora invece del 24 settembre o del 22 ottobre venisse anticipata al 10 la data delle elezioni anticipate, non è detto che il risultato sia in grado di esprimere una soluzione praticabile: tutti pensano alle «larghe intese», eppure spesso assai stretti sono i pertugi per raggiungerle. Ergo: gatto Gentiloni non sta ancora nel sacco, lascia trapelare qualche ragionamento con amici sul «tanto lavoro da fare», sul peccato di «un'esperienza finita proprio mentre siamo nelle condizioni di mettere l'Italia in sicurezza» e via dicendo. Poca roba: passi felpati, sussurri piuttosto che grida o musi lunghi. Eppure, pare abbia detto, «se Renzi ha deciso così, così si farà». E fatto pesare il legame che si fonda sulla gratitudine piuttosto che sull'amicizia, ovvero sulla circostanza che sia stato Renzi a tirarlo fuori dalla soffitta: sia nella ricandidatura elettorale (come il galantuomo di Firenze non ha mancato di rivendicare qualche giorno fa, probabile messaggio cifrato), sia addirittura come ministro degli Esteri. Dunque, Paolo il tiepido consegnerà la campanella del passaggio di consegne senza belare, con garbo, guardando negli occhi l'uomo cui deve tutto il bello di questi mesi. Ma se poi non fosse il giovanotto di Firenze? Se parlasse con accento campano come Di Maio o (persino) del Nord come non-diciamo-chi?

Così, in attesa che si sfili il primo bandolo della matassa sulla legge elettorale, che Alfano o i bersaniani ci pensino su due volte ad accelerare la caduta del governo (ieri in commissione Bilancio un primo segnale, quando il governo è andato sotto su un emendamento per il teatro Eliseo), il premier Gentiloni fa come se nulla fosse. O, forse, non proprio. Ieri ha firmato un decreto della presidenza del Cdm con una dote di 47 miliardi per investimenti infrastrutturali da effettuare nell'arco di 15 anni.

«Ho voluto dare una particolare visibilità alla firma - ha poi spiegato serenissimo-, perché credo sia un decreto di particolare importanza... simbolicamente diamo avvio a un grande piano per il Paese». Tre lustri, pensateci. Puro stile «gentiloniano»: nomen omen.

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