Milano - Una condanna non troppo severa, con tanto di attenuanti generiche «per adeguare la pena al caso concreto», modo elegante per dire che un processo interminabile si è consumato intorno a una bagatella. Ma i due anni e mezzo di carcere chiesti ieri per Roberto Maroni dal pm milanese Eugenio Fusco sarebbero sufficienti, se il tribunale sarà dello stesso avviso, a troncare sul nascere ogni eventuale tentazione dell'ex presidente della Regione Lombardia di tornare ad avere un ruolo pubblico, dopo le dimissioni a sorpresa del gennaio scorso. Una delle due accuse per cui Fusco ha chiesto la condanna di Maroni, la concussione per induzione, rientra infatti tra i reati che per la legge Severino rendono incandidabili a cariche pubbliche.
Sul tavolo, come è noto, ci sono i favori che Maroni avrebbe chiesto e ottenuto per due sue collaboratrici storiche, Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, la prima assunta in Expo e poi inserita in una missione a Tokyo in business class e cinque stelle, e la seconda piazzata in una società controllata dalla Regione. Il piatto forte dell'accusa è il primo, il viaggio che la Paturzo doveva fare in Giappone insieme a Maroni a spese di Expo: non solo perché è qui che scatta l'imputazione più grave, ma perché il pm Fusco lo colloca esplicitamente in un contesto a luci rosse, ovvero la relazione che Maroni e la donna avrebbero intrattenuto all'epoca. Nella sua requisitoria, il pm rivendica di avere tenuto fuori dal processo le intercettazioni più imbarazzanti, «quelle morbose e sgradevoli», e racconta anche che durante i pedinamenti «i carabinieri si sono fermati non un passo indietro ma dieci passi», rafforzando così inevitabilmente la curiosità. Comunque afferma che «la relazione affettiva che legava Maroni e la Paturzo era nota a tutti». E a fare naufragare la missione, dice non furono gli altri impegni di Maroni ma le scenate di gelosia, «non solo professionale» della portavoce di Maroni, Isabella Votino. Il movente lettereccio della faccenda, per Fusco è così cruciale che chiede di incriminare le tre testi che hanno negato la liaison: la Paturzo, la Votino e la neodeputata Cristina Rossello.
Depurata dagli aspetti pruriginosi, resta l'ipotesi di reato: ma qui Fusco sa che per condannare Maroni il tribunale dovrebbe scavalcare un ostacolo gigantesco, la sentenza della Corte d'appello che ha già assolto definitivamente un altro imputato per gli stessi fatti, l'ex manager di Expo Christian Malangone. Quella sentenza dice che non vi fu alcun reato, Maroni si limitò a una richiesta «aperta e perentoria» ma senza fare minacce o promettere contropartite. Anche l'ultimo messaggio del segretario di Maroni, che finì con sbloccare le resistenze di Beppe Sala (oggi sindaco di Milano, allora amministratore di Expo) non fu un ultimatum ma una «rinnovata richiesta».
Ieri Fusco si aggrappa, per aggirare l'ostacolo, a una frase «il presidente ci tiene», contenuta nell'ultimo messaggio del segretario di Maroni a Malangone: per Fusco non è una minaccia ma una «implicita promessa» di favori al manager, che con la fine di Expo sarebbe rimasto senza lavoro. L'imbarco della amica di Maroni sul volo per Tokyo sarebbe stata la contropartita per la futura assunzione.
Sulla ricostruzione di Fusco aleggia la figura di Beppe Sala, che alla fine diede il via libera a viaggio («il capo è allineato», scrisse Malangone) ma non è mai stato incriminato; e che, prima del viaggio a Tokyo, accettò una richiesta di Maroni di valore ben più consistente,
assumendo la Paturzo in Expo e tenendocela per due anni a non fare (dice lui) quasi niente. Dice il pm: «Sala aveva accettato la raccomandazione, questo è malcostume ma non reato». Il viaggio (mai fatto) a Tokyo invece sì.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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