Da amico (più a parole che nei fatti) dell'Occidente a suo nemico a braccetto con la Cina di Xi Jinping. Da erede della Russia democratica post sovietica di Boris Eltsin ad autocrate prima e a dittatore poi. Da candidato (sempre a parole) all'ingresso nella Nato a invasore dell'Ucraina e portatore di esplicite minacce nucleari all'Europa. Ventidue anni al potere hanno visto Vladimir Putin seguire una parabola inquietante che oggi fa temere addirittura una guerra tra la sua Russia e l'alleanza occidentale. E che spinge molti a porsi una domanda: cos'è successo al Putin che credevamo di conoscere come nostro partner, diverso ma in qualche modo affidabile? Quando e perché si è trasformato nel leader di uno Stato imperiale che non rinnega nemmeno Stalin, anzi lo ammette nel pantheon degli eroi nazionali russi?
Per capire e non è impresa facile le logiche che stanno dietro le scelte recenti di Putin, è necessario ricordare da dove viene. Nato nel 1952 da famiglia modesta nella Leningrado (oggi San Pietroburgo) devastata dalla guerra, si è fatto largo in un mondo difficile grazie alla durezza del suo carattere, che contrastava con un fisico esile e un aspetto scialbo. Ha scelto la carriera nei servizi segreti e si è sempre considerato un patriota sovietico senza mai essere un idealista, e in fondo nemmeno un comunista. Amava il Kgb e ne condivideva gli ideali di scudo e spada dello Stato totalitario: a pochi come a lui si attaglia il motto dell'organizzazione «Una volta cekista (la Ceka era la sigla del Kgb ai tempi di Lenin, nda), sempre cekista»: giunto al potere, si è sempre circondato di uomini di quel mondo.
Ha vissuto il collasso dell'Urss nel 1991 come una tragedia e lo ha ripetuto in mille occasioni. Abilissimo nel farsi amiche le persone che gli servivano per i suoi scopi, ha sempre mirato senza scrupoli morali a conseguire ricchezza e potere personale. Cominciò a San Pietroburgo nel 1992, dopo il rimpatrio dalla Ddr dove aveva servito e imparato il tedesco che poi usò per dialogare con la sua amica-nemica Angela Merkel. Affiancando l'allora sindaco e leader democratico Anatoli Sobchak, creò un sistema corrotto che gli permise di arricchirsi e rafforzare in pochi anni il suo peso politico. Grazie ai buoni uffici del potente oligarca Boris Berezovsky, il senescente presidente Boris Eltsin si convinse nel 1999 a farne, a sorpresa, il suo candidato alla successione al Cremlino. Il semisconosciuto Putin vinse così le elezioni, e mise subito in chiaro con Berezovsky che s'illudeva di controllarlo e di spartirsi il potere con lui che a comandare in Russia ci sarebbe stata da allora una sola persona: Putin.
Il ricchissimo oligarca pagò in seguito con la vita il tentativo di resistergli. Non c'interessa però qui ripercorrere la storia della trasformazione di Putin nel nuovo uomo forte russo, ma concentrarci su quella dei suoi rapporti con l'Occidente. Nei suoi primi anni al Cremlino, la sua postura fu amichevole: sostenne gli Stati Uniti nella lotta comune al terrorismo islamico, dichiarò la Russia parte del mondo europeo, tenne buoni rapporti personali con i suoi leader e arrivò a parlare di adesione alla Nato. Bisogna però ricordare l'assenza di idealismo in Putin e comprendere che le sue virate improvvise nelle relazioni con il nostro mondo sono state in realtà dettate da necessità di politica interna. Il suo unico valore politico è la fedeltà all'idea di grandezza nazionale, per il resto tutto è in lui funzionale alla conservazione del potere, mentre verso la democrazia prova solo disprezzo.
Nell'ambizione del popolo ucraino ad avvicinarsi all'Europa e alla Nato ha visto solo un complotto americano. E dopo il 2008, quando una grave crisi economica ha posto fine al periodo di crescita cui i russi si erano abituati, ha scelto di indicare nell'Occidente il nuovo nemico esterno contro cui compattare l'opinione pubblica. Per questo ha fatto propria un'ideologia che prima gli era estranea, suggeritagli dal filosofo fascistoide Aleksandr Dugin ammiratore del teorico dell'autoritarismo nazionalista russo Ivan Ilyin: un mix di estremismi di destra e di sinistra, in una visione del ritorno della grandezza della Russia che deve concretizzarsi nella riconquista dell'impero perduto, a cominciare dall'Ucraina oggi sotto attacco in piena coerenza con le nostalgie sovietiche. Ecco dunque il cinico recupero della figura di Stalin e la persecuzione dell'organizzazione Memorial, che ha la colpa di denunciare i lati peggiori di quell'impero che Putin ha cominciato a ricostruire con la forza.
Putin ha ormai fatto la sua scelta di campo, alleandosi con la Cina in una sfida globale delle autocrazie al mondo occidentale in cui non vede che decadenza da abbattere. Il vero problema di Putin è il suo essere un uomo del passato.
Per questo, in Europa, è l'idolo della destra nostalgica, che lui ha sempre cercato di usare per dividerci dall'America e sostituire all'Ue il suo vero progetto finale: quell'Eurasia che va dall'Atlantico al Pacifico e la cui guida spetta, naturalmente, all'eterna Russia tradizionale che come un Frankenstein Putin vuole resuscitare al posto dell'Urss.
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