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Quando Erdogan decise di resuscitare l'impero ottomano

In un articolo del 2010 il nostro editorialista Dan Segre spiegava l'ambizioso progetto del "sultano"

Quando Erdogan decise di resuscitare l'impero ottomano

Al presidente Obama non costa nulla, ma rende parecchio, l'entrata della Turchia in Europa. Dimentica il veto al passaggio delle truppe statunitensi sul territorio turco all'inizio della guerra d'Irak; lo schiaffo dell'accordo nucleare dei turchi assieme al Brasile e l'Iran; il voto contro le sanzioni all'Iran al Consiglio di Sicurezza. Lo dimentica perché in Irak ci sono diecimila camion, mille carri armati, ventimila Humvee da portare a casa via Turchia. In Afghanistan le retrovie dipendono dal buon volere turco. Meno comprensibile è la convinzione di Obama che l'entrata di 80 milioni di musulmani turchi nella Comunità impedirà alla Turchia di volgersi all'Est e all'Occidente di perdere la sola democrazia islamica moderata, dal momento che la Turchia di Erdogan, sempre meno democratica, è già volta all'Est, spesso contro l'Occidente e i suoi amici. Le ragioni del riposizionamento turco sono ideologiche, economiche e interne e il premier Erdogan leader del partito Akp (Giustizia e sviluppo) ne è il motore.

a) I turchi non vogliono più essere considerati solo un ponte con l'Occidente. Vogliono tornare ad essere, come al tempo dell'impero ottomano, «il centro del mondo». Un mondo che l'Europa ha distrutto territorialmente nella prima guerra mondiale e Atatürk culturalmente, con la creazione della Repubblica turca laica. Erdogan cavalca abilmente un'aspirazione sempre più condivisa dalla popolazione.

b) Il successo dell'islamismo del partito Akp è legato al successo della politica economica del governo. Quando Erdogan prese il potere, la lira turca aveva perso otto volte il suo valore e nel 2001 una Coca Cola costava un milione. L'Akp ha ottenuto il 47% dei voti alle elezioni del 2007 grazie alle drastiche riforme economiche, allo sviluppo industriale e agricolo. Nel giugno 2010 le esportazioni sono aumentate del 13% a confronto del 2009; le compagnie di costruzione turche hanno contratti per 30 miliardi di dollari; gli investimenti esteri si avvicinano ai tre miliardi. La Turchia, esportatrice d'acqua, è un ponte strategico energetico fra Asia e Europa. A finanziare questa rivoluzione è stato il «denaro verde», i petrodollari disponibili nelle banche islamiche. Offrono investimenti, non potendo offrire interessi, che i clienti islamici hanno accettato con entusiasmo. Non sono necessariamente condizionati da ideologia, ma condividono il desiderio di «strappare» la Turchia dal suo laicismo e dall'alleanza col il grande Satana americano e il piccolo Satana israeliano. La svolta politica turca verso l'Est e il Sud islamico ha coinciso oltre che con il crollo dell'Urss, con l'apertura dei mercati arabo-islamici incluso quelli di Paesi tradizionalmente nemici come Iran e Siria. Per cui la Turchia ha meno bisogno della lobby ebraica in America per contrastare quella armena e di Israele come l'«amico dietro le spalle del nemico» nel Medio Oriente.

c) In politica interna, l'ostacolo all'affermazione del partito islamico è l'esercito «guardiano» dell'eredità laica di Atatürk. Erdogan si è servito della dabbenaggine della Ue per di ridimensionare il potere dei militari, aderendo alla richiesta di «democratizzazione» europea. Processo appoggiato dalla Chiesa, anti laicista, in un Paese dove è proibito a un prete o una suora di vestire l'uniforme in pubblico. Staccarsi da Israele si è dimostrato pagante e di poco costo dato l'enorme prestigio che questo poteva dare al premier turco, novello Nasser, tanto presso l'elettorato islamico che nell'opinione pubblica araba dove l'odio per l'imperialismo ottomano si è affievolito nel tempo mentre quello per l'imperialismo americano ed europeo viene mantenuto caldo dal conflitto palestinese. Sarebbe errato avvicinare il comportamento del governo islamico turco a quello del Terzo Reich nonostante il diffondersi della propaganda antisemita in Turchia, la denuncia dell'operato antigovernativo di «ricchi ebrei» e di molte forme di libertà di espressione. È tuttavia chiaro che Israele e l'Ebraismo servono da ottimo «capro espiatorio» per la politica interna ed estera di Erdogan. È dunque probabile che la rottura con Israele continuerà e crescerà se l'Akp vincerà le prossime le elezioni mettendo fine al laicismo costituzionale. L'attrazione europea resterà retorica e comunque inferiore a quella islamica e all'aspirazione neo ottomana.

Se si aggiunge la continuata occupazione turca di Cipro, la tensione con l'Armenia, l'avvicinamento all'Iran, l'appoggio a Hamas, l'alleanza con la Siria, l'orientamento economico verso l'Est e la tensione con Israele, l'entrata della Turchia nella Comunità, nonostante i voti di Obama, appare improbabile.

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