Quando spergiuravano: il 2,4% non si tocca, lo spread ce lo mangiamo

Da Conte ai due vice, tutti dicevano «non ci muoveremo di un millimetro». E poi s'è visto

Quando spergiuravano: il 2,4% non si tocca, lo spread ce lo mangiamo

Il sacro «2,4%», simbolo della sfida a Bruxelles, Di Maio lo gridava dal balcone, Salvini lo agitava sul web come un drappo rosso. Dopo la bandiera bianca alzata a Bruxelles dal governo, i due leader si defilano e lasciano a Conte l'ingrato compito di sussurrare il «numerino» della resa, il più mite 2,04%. Così si è passati da «me ne frego» a «se indietreggio uccidetemi». Difficile ora far dimenticare i proclami sbruffonisti, più che sovranisti, ripetuti per ottanta giorni e ribaditi fino a poche ore prima del dietrofront.

Luigi Di Maio ha dato il via alla gara propagandistica il 27 settembre con la sceneggiata sul balcone di Palazzo Chigi che, guarda caso, ora è incerottato, causa restauro, come un'arto fratturato nel braccio di ferro con la Commissione europea. Tutto è partito con la foto dei ministri grillini affacciati dal balcone, i volti deformati dall'entusiasmo per quel patto d'acciaio simboleggiato dal 2,4% di deficit/Pil che, aveva sparato Di Maio, significa «l'abolizione della povertà». Qualche leghista, più navigato l'aveva sussurrato a mezza bocca che quella sceneggiata era un po' troppo, ma ormai la sfida celodurista era partita. E anche Salvini si era scatenato: «I mercati se ne faranno una ragione».

I mercati invece hanno iniziato subito a rispondere a colpi di spread. Ma niente poteva fermare la spirale degli slogan battaglieri. Salvini il 30 settembre: «Lo spread ce lo mangiamo a colazione». Di Maio il primo ottobre: «Non c'è nessuna motivazione per tornare indietro da quel 2,4». Borse a picco, Btp con il fiato corto? Il leader leghista il due ottobre: «Noi non arretriamo di un millimetro». E Conte, obbediente, il 3 ottobre si prestava anche lui a dismettere l'aplomb leguleio per mettere il sigillo del premier alla campagna del «2,4 o morte»: «Confermiamo ufficialmente il rapporto deficit/Pil, il governo è compatto».

Un mantra ripetuto all'infinito, mentre Alberto Bagnai e Claudio Borghi, gli economisti euroscettici della Lega, per un mese si affannavano nelle trasmissioni tv e su twitter a ribadire che «il 2,4 per cento è intoccabile», spiegando come i miracoli economici innescati da reddito di cittadinanza e quota 100 avrebbero fatto crescere l'Italia a ritmi cinesi, smentendo le profezie di sventura della Commissione.

Eppure i segnali erano tutti lì in bella vista, incluso il rallentamento del Pil arrivato puntuale a smosciare l'ottimismo di governo. Niente da fare: per due mesi abbiamo visto il povero Tria-Penelope tessere la tela della moderazione di giorno, per vedersela scucire di sera nei vertici dei leader che si susseguivano sempre più frequenti man mano che la realtà irrompeva nei proclami gialloverdi. Perfino il 23 ottobre, quando la bocciatura europea era ormai palese, Conte insisteva: «La legge di Bilancio non è stata improvvisata. Dire oggi che la rivediamo non avrebbe senso». Come no. E ancora il 14 novembre Salvini scandiva: «Se all'Europa va bene siam contenti se all'Europa non va bene tiriamo dritti lo stesso». Tiè, perfida Bruxelles. E Di Maio: «Le minacce dell'Ue non ci fermano».

Di lì a poco l'odore acre della ritirata cominciava a intuirsi: «Non ci attacchiamo allo zero virgola in più o in meno».

Ma la giravolta è stata nascosta così bene che ancora due giorni fa Bagnai dava il 2,4% come indelebilmente «scritto con inchiostro». Non sapeva che Tria ci aveva già messo una croce sopra. Senza gridarlo dal balcone, ovviamente.

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