Quante insidie nell'aiuto degli arabi

Obama ha cercato per tre anni di tenersi fuori dalla Siria, anche a costo di perdere punti di fronte al suo nemico storico, la Russia. Ma le decapitazioni e l'escalation territoriale ed economica dell'Isis, l'hanno costretto a fare quello che non avrebbe mai voluto: far sentire i botti dei Tomahawk su Rakka

Gli echi della guerra in Siria per la prima volta si sentono nel giardino della Casa Bianca. Da là, salendo sull'elicottero che lo porta a New York all'Assemblea Generale, Obama ci tiene a dare al suo proclama un tono schivo, modesto, un po' troppo per una guerra: batteremo i terroristi ovunque si trovino, operiamo con una coalizione di cinque stati arabi amici che combattono insieme a noi... Nella sua espressione fredda, sempre un po' snobisticamente seccata quando è costretto a parlare di guerra, non c'è lo scenario apocalittico della battaglia, quello vero, un Medio Oriente con 14 milioni di profughi, in cui in queste ore i curdi fuggono a centinaia di migliaia inseguiti dalla follia dell'Isis, la fama attanaglia tutte le popolazioni, la morte si aggira con la sua falce. La tetra passione per la morte dei terroristi non si scontra dall'altra parte con un'entusiasta fiaccola di vita, ma con una coalizione spuria, che sa già che una guerra non può esser vinta solo dall'aria.

Obama ha cercato per tre anni di tenersi fuori dalla Siria, anche a costo di perdere punti di fronte al suo nemico storico, la Russia. Ma le decapitazioni e l'escalation territoriale ed economica dell'Isis, i giovani occidentali in guerra che hanno creato l'incontenibile frustata dei media, hanno costretto Obama a fare quello che non avrebbe mai voluto: far sentire i botti dei Tomahawk su Rakka. Ha due consolazioni: cinque Paesi sunniti che ha definito «amici» (questo gli è congeniale) e il secondo dei due obiettivi colpiti ieri. Il primo, le infrastrutture tecniche di Isis, distrutte con 14 bombardamenti dall'aria e dal mar Rosso. Il secondo, l'attacco al gruppo Khorasan, veterani di Al Qaeda che «stavano progettando un imminente attacco contro gli Usa». Bombardamenti duri, più di quelli in Iraq delle settimane scorse. L'Arabia Saudita, il Bahrain, la Giordania, gli Emirati, il Qatar, sono tutti Paesi con buoni motivi per combattere l'Isis, un'entità territoriale ormai petrolifera, un danno alla loro credibilità di stati Sunniti che tengono in conto l'Occidente. Chi è più sincero, come la Giordania, chi ha un fine imperiale e diplomatico insieme, come l'Arabia Saudita. Il funambolismo della coalizione lo dice la presenza del Qatar, accusato da molti di avere finanziato tutti i gruppi più estremisti fino all'Isis stesso. Dall'Egitto, l'alleato più naturale, il presidente Sisi si esprime con estrema cautela in un'intervista a Ap : certo disponibile però non è sul terreno, e parla del ritardo eccessivo nel capire la situazione. E Israele, che ieri si è trovata nella necessità sgradita di abbattere un aereo di Assad che aveva sconfinato dal cielo di Kuneitra su quello israeliano, aiuta di fatto la coalizione con un largo lavoro di informazioni e di chissà quant'altro, ma per motivi diplomatici non se ne deve parlare altro che sottovoce, altrimenti i Paesi Arabi si disgustano; per finta, si capisce.

La Turchia, che ha detto «no», forse adesso data la fiumana di profughi curdi dalla Siria attaccata da Isis, cambi idea. Ma il vero punto riguarda la Siria di Assad con i suoi alleati Iran e Hezbollah. Si sa, anche se Washington non lo vuole dire ufficialmente, che l'esercito americano ha il nulla osta di Assad per combattere contro l'Isis: ha la sua totale approvazione, e probabilmente anche il suo aiuto. Ma gli Usa hanno dichiarato che Assad non è un alleato: e tuttavia, se vince Obama, vince anche lui, e insieme a lui gli Hezbollah e soprattutto l'Iran. La Repubblica islamica è già sul campo, in forze sia in Iraq che in Siria che servono da retrovia per la sua politica di potenza atomica. Tutti i salamelecchi circa gli inviti di Kerry e i patti negati sono finzioni.

La verità è che l'oggettiva alleanza avvicina Obama a Rouhani, e adesso anche David Cameron ha in programma un incontro col presidente per chiedergli di unirsi alla coalizione abbandonando Assad. Una follia.

Quello che invece è realista è che la scadenza di novembre in cui l'Iran doveva definire la sua posizione sul nucleare, diventa un lontano orizzonte contro cui le centrifughe lavoreranno alacremente. In una parola: non si può sconfiggere il fronte sunnita estremo promuovendo il fronte shiita estremo. L'unica strada è un fronte dei moderati. Al solito, Obama non ne fa parte.

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