L'autobus 87 che parte dalla Stazione Centrale di Milano non è un autobus: è una macchina del tempo. Chi vuole può salire e, in poco più di 10 minuti, passare dalla Milano hi-tech 2018 alla Milano industriale anni '60. E così, affiancati sugli stessi sedili, puoi trovare uno «Steve Jobs» in salsa meneghina e una «tuta blu» che può ricordare alla lontana (molto alla lontana) il metalmeccanico «Giulio Basletti» interpretato da Ugo Tognazzi del film «Romanzo popolare».
«Steve», probabilmente, scenderà dalle parte di via Filzi per raggiungere uno dei negozi specializzati in informatica; «Giulio» proseguirà invece per via Sammartini, prenotando la fermata di viale delle Rimembranze di Greco. Ha un appuntamento - «il Basletti» - cui non vuole mancare. Perciò imbocca via Rho dove, due sere fa, tre suoi colleghi sono morti, intossicati dal gas nella trappola di un «forno di ricottura» che, solo a nominarlo, incute timore.
Davanti allo stabilimento «Lamina spa» c'è un mazzo di fiori. Lo hanno messo i colleghi delle vittime. Sono i discendenti del vecchio, e ormai superato, Cipputi: personaggio da archeologia proletaria che qui, nel quartiere di Greco, ultima roccaforte operaia della periferia nord di Milano, continua ad avere qualche estimatore. Come, ad esempio, il folcloristico «delegato Fiom» che non trova di meglio che reclamare «uno sciopero di protesta».
Quasi nessuno gli dà retta, eccetto qualche nostalgico rispettoso forse della memoria del sindacalista rosso «Folagra» che indottrinava Fantozzi sui diritti dei lavoratori sfruttati dai capitalisti. Ma, dopo la tragedia di martedì, nessuno ha voglia di fare rivoluzioni. Piuttosto si vorrebbe tornare al proprio posto. Ma, almeno per ora, non si può. La ditta, dopo l'«incidente», è sotto sequestro. Gli operi restano fuori dai cancelli. Piangono. Ma nessuno impreca. Nessuno accusa «il padrone».
«Questa fabbrica, da sempre, è una famiglia - spiega Vito -. Ciò che è accaduto non riusciamo a spiegarcelo». Ma le spiegazioni, qualcuno, dovrà pur trovare. Lo esigono le famiglie dei morti, ma lo si deve anche ai colleghi che alla «Lamina» torneranno al lavoro, speriamo al più presto. Uno stabilimento che in tanti definiscono «modello», aggettivo che - almeno oggi - sarebbe meglio evitare.
Sotto questi padiglioni si producono «nastri di alta precisione in acciaio e titanio». Qui non c'è l'inferno delle fornaci, ma il purgatorio (solo apparentemente meno dannato) dell'azoto: un gas che ti uccide a tradimento perché non lo vedi e, quando lo senti, è già troppo tardi. Sulla carta è «tutto in regola», le norme «applicate alla lettera».
I proprietari della società che dal 1949 esporta all'estero circa la metà dei suoi «metalli lavorati», non ha mai avuto problemi sul fronte della sicurezza. Lo confermano gli stessi operai: «Chi non indossava mascherina, guanti, elmetto e calzature anti-infortunistiche rischiava la multa. Appena il mese scorso i macchinari erano stati testati e le verifiche non avevano evidenziato anomalie». Eppure. Eppure non tutte le cose stanno come ce le raccontano. Altrimenti quello che è successo non sarebbe successo. Un dramma di cui in via Rho si parla tenendo gli occhi bassi. Alzarli troppo significherebbe vedere verità scomode. E questo fa paura.
Tra le case che circondano la «Lamina» la gente è affacciata alle finestre. Osserva il via vai delle telecamere dei tg. C'è un'auto dei carabinieri. A bordo i due pm che indagano e hanno già formalizzato per i responsabili della ditta l'ipotesi di «omicidio colposo plurimo»: un «atto dovuto» ma che nulla toglie alla gravità dell'accusa.
Intanto i cronisti vanno a caccia di «storie».
Un «amico» di una delle vittime li accontenta, lanciandosi in un parallelismo tra la sciagura consumatasi tra gli asettici corridoi della ditta di via Rho e la catena di montaggio, sporca di grasso, del film «La classe operaia va in paradiso». Nella pellicola di Elio Petri del '71 il metalmeccanico «Lulù» (Gian Maria Volontè) ci rimette un dito. I tre sfortunati operai della «Lamina» ci hanno rimesso la vita.Il «parallelismo» non regge.
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