Renzi blinda la poltrona: referendum a novembre ma se perdo non lascio

Ora il premier non parla più di dimissioni e anticipa la data del voto: può essere il 6

Renzi blinda la poltrona: referendum a novembre ma se perdo non lascio

Lo «spacchettamento» del referendum costituzionale in più quesiti? «Non sta in piedi». Matteo Renzi mette la definitiva pietra tombale sulla scombiccherata proposta (cucinata dai Radicali Italiani) di smembrare la riforma in vari capitoli sottoponendo ciascuno al Sì o No degli elettori.

Che la trovata non andasse da nessuna parte si era già capito da tempo, in verità, anche per le circostanziate perplessità mostrate dalla gran parte dei giuristi (e fatte trapelare dallo stesso presidente Mattarella), ma il mondo politico e i giornali ci si sono baloccati per qualche giorno. E lo stesso premier ha lasciato fare, nell'ambito della sua nuova strategia di comunicazione «soft»: farsi vedere aperto alle richieste, sia pur bislacche, per smorzare la polemica, e incanalare la discussione verso il merito della riforma, più lontano possibile dallo scontro.

Niente artifici tecnici per smorzare gli effetti del referendum o rinviarlo (come già accusavano le opposizioni), dunque. Anche se la data resta incerta: Renzi ieri, intervistato in diretta da Beppe Severgnini sul Corriere.it, ha ribadito che per lui l'ideale sarebbe ad ottobre, si può anche arrivare «al 6 novembre». Quanto all'esito, «non ho paura: votano i cittadini». Di più: il premier si dice convinto che, «anche se i parlamentari di Cinque Stelle voteranno No, anche per salvarsi la poltrona in Senato», per i loro elettori il discorso sia diverso: «Non credo - è suo il ragionamento - che gli elettori del M5S voteranno no alla riduzione del numero di parlamentari e al cambiamento: loro le poltrone le vogliono tagliare davvero». Su cosa accadrà se invece il referendum lo perdesse, «sul mio futuro non apro più bocca». Sull'Italicum ribadisce: «una legge elettorale c'è, e funziona: quando siamo arrivati noi non c'era nulla, perché il Porcellum era stato cancellato. Se poi il Parlamento è in grado di farne un'altra, si accomodi». Gli avvertimenti di Carlo De Benedetti, seguito a ruota da Eugenio Scalfari («Se non cambi l'Italicum votiamo no») non vengono apparentemente raccolti dal premier. Del resto ieri proprio Repubblica, in un sondaggio, dava i Sì in calo ma in testa. L'obiezione dei contrari all'Italicum («Al ballottaggio possono vincere Grillo») il premier la rintuzza così: «Alle elezioni possono vincere gli altri? Sì: si chiama democrazia».

Renzi però si guarda bene dal cercare la polemica frontale con gli avversari, grillini inclusi. Si limita, a domanda diretta, a rispondere di non credere che Luigi Di Maio sarà «il mio successore». E usa toni ecumenici con i neo-sindaci pentastellati, augurando loro «buon lavoro». Non infierisce neppure sui primi stentati passi di Virginia Raggi a Roma, anzi: «L'ho chiamata e le ho detto che il governo è pronto a darle una mano, prima delle divisioni di parte c'è l'Italia». Perché, insiste, il dibattito politico è inquinato da «troppo odio», e serve «un clima più civile: non si può pensare che gli altri partiti siano il male assoluto». Del resto, ricorda, «anche quando ero sindaco di Firenze venivo attaccato dal mio partito perché non parlavo male di Berlusconi». Anzi, racconta, «la risatina di Sarkozy e Merkel contro di lui mi fece male, perché giusto o sbagliato questo è il mio paese». Ora però, tiene a sottolineare ricordando le ultime immagine dei vertici europei che lo vedevano in cabina di regia con Francia e Germania, «non ci sono più due che ridono di noi: siamo in tre, e decidiamo insieme».

L'unica perfidia, Renzi la riserva a Enrico Letta: «Sono andato a Palazzo Chigi perché il governo di prima non faceva più nulla. Se sono pentito dello stai sereno? No, ci credevo. Scriverò la ricostruzione di come andarono le cose: è arrivato il momento».

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