Il ricatto di Renzi ad Alfano: o lo voti oppure ti dimetti

Renzi e Alfano si sentono in serata. La nota di Palazzo Chigi: "Clima sereno sulle riforme"

Il ricatto di Renzi ad Alfano: o lo voti oppure ti dimetti

«No, Angelino, così non va». Alle cinque della sera, l’ora classica della resa dei conti, Matteo Renzi prende Alfano, lo porta della saletta interna di Montecitorio e quasi lo appende al muro. «Sei il ministro dell’Interno, sei quello che deve comunicare ai prefetti la nomina del nuovo capo dello Stato, e ti permetti di giocare contro il tuo governo sul Quirinale. Dove si è visto mai? Dov’è la coerenza? Ti avverto: se insisti, se farai votare scheda bianca, dovrai anche trarne le conseguenze politiche». Cioè, dovrai dimetterti, uscire dalla maggioranza, lasciare il Viminale. Alfano cede subito, forse non aspettava altro: metà partito avrebbe comunque votato Mattarella. Ha solo bisogno di una scusa per salvare la faccia: «Mi serve un tuo gesto distensivo, una dichiarazione, che ne so, un appello alla responsabilità».

Puntuale, un'oretta dopo, il premier fa uscire una nota in cui chiede pubblicamente «la più ampia convergenza possibile di maggioranza e opposizione» sulla figura «autorevole e stimata da tutti» di Sergio Mattarella, «un servitore dello Stato». Chissà se basterà per convincere Forza Italia, ma per Ap-Ncd avanza. Adesso la resa è possibile, si tratta soltanto di ratificarla con un riunione ufficiale, alle otto stamattina, quando Alfano dirà che «con l'appello è stato riparato ad un errore». E dopo l'appello di Renzi anche 11 senatori di Area Popolare si muovono a sostegno di Mattarella «persona di alto profilo giuridico ed istituzionale».

Che «il caso Alfano» abbia un risvolto non solo politico ma numerico sul nome di Sergiuzzu , lo si capisce dal gabinetto di guerra allestito dal premier e composto dai capigruppo Zanda e Speranza, i vicesegretari Guerini e Serracchiani e il presidente del partito Orfini, che controllano continuamente l'evolversi della situazione.

Così per tutto il pomeriggio va in scena il pressing asfissiante degli uomini del premier sugli alleati. Ecco Maria Elena Boschi, in un vestito senza maniche nonostante il gelo, che in aula aggancia Enrico Costa e gli spiega che Ncd deve rientrare. Velocemente. Poi il ministro della Riforme esce in Transatlantico, vede Maurizio Sacconi e Maurizio Lupi, li trascina in un angolo del Transatlantico e per mezz'ora prova a convincerli a tornare nei ranghi. Ecco il Pd Emanuele Fiano che dice che il Nuovo centrodestra «deve votare Mattarella per il bene del Paese».

Ecco Fabrizio Cicchitto seduto su un divanetto che discute con alcuni colleghi di partito. Qualcuno, come Andrea Augello, resiste: «Votare Sergio Mattarella? Non siamo obbligati». Qualcun'altro, come Gaetano Quagliariello, apre: «Il nostro è l'unico partito marxista-leninista in cui si discute ma alla fine vince il centralismo democratico».

Ma prima di ufficializzare la resa, il ministro dell'Interno tenta di coinvolgere pure il Cavaliere, con il quale esiste, fin dall'inizio della partita, una sorta di patto d'azione. Alle 19 a Montecitorio si incontrano i plenipotenziari: per Forza Italia Giovanni Toti e Paolo Romani, per Ap il ministro Gianluca Galletti, Pier Ferdinando Casini e Maurizio Sacconi. Ma gli azzurri non si convincono, i centristi invece sono pronti.

A questo punto la retromarcia è matura, lo si intuisce da Roberto Formigoni. «L'appello di Renzi è un po' striminzito, ma va nella direzione che avevamo chiesto noi, togliendo a Sergio quell'aura di uomo solo del Pd senza nessuna attenzione agli alleati di governo».

In serata fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che tra Renzi e Alfano c'è stata «una telefonata molto cordiale, improntata a ricostruire un clima sereno per consentire la convergenza su Mattarella e rafforzare il cammino riformatore». Qualche ora la mossa dei senatori usciti allo scoperto e «compatti per Mattarella». Manca solo l'atto di resa, che arriverà stamattina.

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